Per almeno vent’anni la scuola le aveva fatto credere, dando la cosa per certa, che la conoscenza esistesse solo come conseguenza della fatica.
Aveva passato anni curva sui libri per il semplice gusto di imparare perché, per Lei, la strada valeva tanto quanto la meta.
Intorno ai diciotto anni però una voce dentro di lei aveva iniziato a dissentire.
La voce interiore le diceva che dentro ad ognuno già esisteva un sapere e che il viaggio in realtà sarebbe stato solamente darsi la libertà di crederci.
Ma come si fa a diciotto anni ad ascoltare una voce tanto diversa da quello che per tutta una vita le era stato insegnato e mostrato?
Come si fa a credere che ciò che fino ad allora aveva dato risultati non fosse l’unica via alla realizzazione dei propri più profondi desideri?
In realtà come si fa, così giovani, a conoscere già i propri più profondi desideri, quelli che ti rendono libera?
Non si può.
Lei, però, sentiva che certe cose erano ed altre non erano. Non c’era coscienza, c’era un’intuizione e poi un ben essere nel corpo.
Era uno spillo che pungeva ogni tanto, solo ogni tanto, e non faceva male; faceva bene.
Accadeva che per nanosecondi venisse attratta da qualcosa, bella o brutta che fosse, perché la sentiva famigliare, la sentiva sua anche se completamente estranea.
Negli anni a venire Lei imparò a rispettare quegli spilli che tanto l’attraevano, senza però, mai capirli.
Un giorno di non molti anni fa, lo spillo punse più a fondo e squarciò un velo e Lei, come un automa, acquistò una macchina da cucire, qualche stoffa, aprì un libro che aveva comprato trent’anni prima in una terra lontana spinta da quel solito senso di famigliarità sconosciuta e si mise a cucire senza saperlo fare.
Si accorse che non solo conosceva, ma ne era abile.
Era un sapere genetico; proveniente probabilmente dalla sua semplice appartenenza all’universo femminile.
Quello che lei era in grado di fare non era proprio della sua cultura, ma di quella di un popolo oltreoceano che aveva legato insolubilmente la propria storia a quei pezzi di stoffa tagliati e ricuciti. In quelle coperte c’era scritta la storia della difficoltà della sopravvivenza , della libertà dalla schiavitù, della guerra, di sedie a dondolo e porticati di legno, finanche la storia della bandiera nazionale.
Lei era estranea a tutto questo eppure sapeva fare.
Non si chiese troppi perché; rese quest’arte parte della sua vita semplicemente perché la rendeva felice. Non c’era una necessità reale, nè una motivazione politica. Cucire era solo bello e dava piacere.
Per iniziare aveva scelto di copiare un’immagine fatta di quadrati e triangoli, pensando che fossero figure semplici poi con il tempo aveva scoperto che quei triangoli avevano un nome “Flying Geese” e che il cucirli richiedeva dei trucchetti che chissà come a lei venivano facili. Li assemblava in blocchi che poi avrebbero dato forma ad una coperta matrimoniale.
Quei triangoli assomigliavano effettivamente ad uno stormo di oche in volo e decisamente avevano il potere di mostrare una direzione; infatti, in passato, coperte cucite a Flying Geese venivano appese sui portici delle case per indicare la direzione a chi scappava dagli stati schiavisti verso il libero Canada, attraverso la così chiamata “underground railroad” oppure più semplicemente per indicare loro la presenza di cibo ed acqua oppure di un rifugio sicuro.
Sarebbe riuscita anche lei a cucire significati?
Nel giro di due anni cucì cinquanta blocchi.
Guardandoli tutti assieme per trovare un’idea di come assemblarli in coperta si accorse che sì in ognuno di essi c’era un significato. Ognuno di loro raccontava un pezzo della sua anima espresso in colore. Le stoffe assemblate le restituivano il tempo trascorso nella scelta degli abbinamenti che Lei aveva fatto in base a mille sfaccettature della sua vita, dai colori della terra che nutriva la sua esistenza all’espressione della Singolarità per la quale Lei ora era, passando per il ricordo della nonna materna.
Anche le sue oche avevano volato verso la libertà nascosta dentro al lasciare un profondo desiderio, o forse una necessità, venire a galla e l’avevano fatta atterrare nel mondo della tecnica del cucire attraverso la conoscenza di sé resa in colori.
Decise di allontanare il più possibile i blocchi l’uno dall’altro per non mischiarne i significati, scelse il bianco come campo neutro e poiché cinquanta blocchi sono tanti ne fece due coperte , una invernale ed una estiva.
Una disegnava la sua essenza a partire dalla singolarità che dava significato al suo essere umano intorno alla quale c’era poi tutta lei; l’altra erano tanti quadri appesi a mostrare il suo muoversi, a volte camaleontico, nel mondo delle relazioni con gli altri esseri umani.
Diede un nome a quel lavoro che chiamò: “io sono coperta 1 e 2” oppure nell’altra lingua: “me, myself quilt 1 and 2”.
Cucì dieci metri lineari di stoffa per cinque. Il pavimento del suo soggiorno quasi non li conteneva.