Quattro sorrisi

Questa e’ la storia di quattro sorrisi tutti compresi nel tempo di un mese. Il primo arrivato con la luna piena dentro ad un pullman tra Orio al Serio e Milano. E’ un sorriso straniero che si concede di rado, ma e’ sempre presente nel scendere i gradini del mezzo quando la porta si apre in via Cadamosto. Quest’anno e’ apparso mentre le porte ancora non erano aperte. Ci siamo visti e quel viso bambino si e’ illuminato tutto per me. Un sorriso grande che racconta di amore e riconoscenza, ma che in quel momento era solo pura felicità di essere un cima a quei quattro gradini pronto per scenderli rapido e finire nelle mie braccia e nella vacanza italiana fatta di caldo, frutta e bagni al mare.
Il secondo sorriso e’ un sorriso adulto, ma mica poi tanto. Mi e’ saltato in braccio come una furia. Me lo son vista arrivare che quasi prendo paura perché inattesa era tanta irruenza. Urlava felice: “ devo dirlo a faccia di mamma, la mia è lontana ed io non resisto a tener tutto dentro perché sono troppo felice”. Così è toccato a me, per conto terzi, prendermi tanta felicità. Lui era estasiato per un 18 in statistica ed un 25 in altra materia. Ma era il 18 ha farlo volare. Ci sono voti che si rifiutano, e voti per cui invece si è grati. Chiunque nato umano sa che un 18 in statistica o anatomia o diritto privato oppure statica è manna dal cielo; si prende senza fare gli schizzinosi e lo si usa come rampa di lancio. Primo dei lanci è il gran sorriso da donare in giro! Lui si sentiva così leggero da non riuscire a tenere i piedi per terra e così saltava in aria come fa un palloncino pieno di Elio spinto dal vento. Mi prese tra le sue mani e, abbracciandomi forte, mi trascino’ lassù nel cielo blu. Tornando a terra io ho poggiato i piedi al suolo, ma lui, più felice che mai, con un salto balzo si è lanciato nelle braccia di un amico che in quel momento sopraggiungeva; ripetendo, con lui, l’acrobazia appena fatta con me e lasciando me lì felice e sazia a guardarlo.
Il terzo sorriso nasce dalla vera tensione da prestazione. Lui e’ un ragazzotto più bello del bello al suo primo esame. Quello di terza media. E’ sicuro e spavaldo per l’ottimo anno scolastico appena passato, ma e’ la sua prima volta e sente fortissimo la serietà della situazione e della commissione, schierata completa di preside e consigliere. Li’ tutti riuniti per il suo esame. Prima di entrare anche solo un lieve battito d’ala a lui vicino potrebbe farlo esplodere come la dinamite, ma lui tiene botta e nel momento medesimo in cui inizia a parlare davanti a un tale auditorio si placa, presente più che mai a se stesso e sostiene uno splendido esame. Il tempo di uscire e smaltire l’adrenalina ed eccolo il meraviglioso sorriso arrivato ad illuminare a giorno quel volto più bello del bello. E’ un sorriso forse un po’ frastornato, ma orgoglioso di aver dimostrato a se stesso e al mondo di saper gestire tale momento elevato. E’ anche un sorriso assai sollevato per aver regalato al passato la prova d’esame e per potersi ora godere ogni istante della vacanza d’estate. Questo e’ un sorriso che molte ore ha vissuto; l’ho visto spegnersi solo quando il sonno l’ha colto.
Il quarto sorriso e’ un sorriso assonnato, nasce da un viaggio lunghissimo di ritorno a casa dopo un anno di “Pura vida”. Lo ha acceso un occhio aperto a metà che di colpo ha trasformato il sonno in realtà. E’ un sorriso rotto in due meta’ perché dentro a tanta felicità per l’odore di casa ormai ritrovato c’è anche il profondo dolore per il paese, gli amici e quella nuova famiglia lasciati lontano. Loro hanno reso l’anno appena passato il più bello della sua vita arrivata a contarne di anni ben diciassette. In quel sorriso di felicità c’è poi anche dentro l’entusiasmo del nuovo inizio . La sua vita italiana riprende, ma con dentro il nuovo del Costarica e scuola, amici e famiglia dovranno accogliere questa grande ricchezza. Così quello e’ un sorriso che dice eccomi qua io sono pronto e voi? E’ un sorriso che chiede del nuovo e lui di sicuro lo riceverà.
Io credo che ricorderò questo mese di Giugno come il mese dei quattro sorrisi, ognuno portato da un motivo diverso, e ognuno incastonato perfetto dentro a una vita che sboccia.

Il soldato

Era passato un anno ormai dal giorno in cui due parole, dapprima appena bisbigliate dentro di sé, poi timidamente sussurrate ed infine urlate al cielo avevano cambiato la vita a quella generazione sfortunata cui lui apparteneva. “E’ finita…” “E’ finita?” “E’ finita!” Quel canto universale ebbe il potere di mondare il suo corpo dell’adrenalina, da anni unico sussidio alla sua sopravvivenza in quel mondo di morte. Lui, uomo fuso alla trincea, finalmente si sentì libero, libero di non dover resistere. Si guardò intorno in quei luoghi che non riconosceva perché così ostili alla vita e, per la prima volta, si permise di cercare i segni dell’autunno, la natura al posto della forza nemica. Non era facile lasciarsi andare alla tranquillità, l’abitudine era altra. I giorni passarono e la trincea si allontanò. Quello sguardo dato alla terra tra buchi e i fili spinati, lasciò il posto a un’improvvisa voglia di vivere. Tutto ora era amico, tutto parlava di futuro. Là al freddo del fronte non c’era tempo per distrarsi con pensieri di vita, c’erano solo i compagni, carne pronta da macello come lui; ma ora, ora tutto era cambiato e, nonostante l’autunno, il mondo era in fiore ai suoi occhi. Tornò persino ad appoggiare lo sguardo su una ragazza, così solo per avere in cambio un sorriso. Lui la guardò, lei rispose agli occhi di lui e, per la prima volta in molti anni, nessuno dei due chiese all’altro un poco di vita per poter sopravvivere; furono liberi di potersi semplicemente sorridere e si sorrisero a lungo. La vita ricominciava, lentamente, ma ricominciava. Ora a distanza di un anno, il fermento dei primi tempi aveva lasciato il posto ad altro, perché non si poteva andare avanti ignorando ciò che gli occhi avevano visto ed il cuore provato. Era stato tanto vicino a morte e dolore da neutralizzare ogni angoscia; lui conosceva la paura così bene da averla resa innocua. Aveva anche dovuto neutralizzare pietà e rimorso. Ogni atto della vita passata era avvenuto più e più volte e questo bastava a dargli il rango di umano. Lui, oggi, era un Uomo che conosceva tutto perché aveva vissuto gli estremi. Sapeva tutto perché aveva dovuto staccare l’atto dal giudizio e questo lo aveva reso molto simile a un dio. Lui questo lo percepiva; così erano giorni ormai che andava pensando a quando, da bambino, aveva chiesto alla sua maestra delle elementari, una suora sincera, di quelle che amano onestamente e che pertanto la dottrina non aveva indurito, cosa sarebbe successo se lui fosse mai riuscito a vedere Dio. Lei gli rispose con quel suo dolce sorriso che sarebbe semplicemente morto perché una volta conosciuto Dio non ci sarebbe più stato spazio per nulla. La vita si esauriva in Dio. Non in realtà lei disse: “ La vita, conosciuto Dio, diventata Dio Ella stessa.” Queste parole gli martellavano il cervello perché, oggi, lui le riconosceva vere. Era stata la guerra a mostrarglielo. Lui si era accorto di aver consumato nel tempo di pochi anni ogni tipo di esperienza, forzato dagli eventi era entrato nei più reconditi anfratti dell’essere umano e ne era uscito vivo con un impressionante bagaglio di vita; non era impazzito e nemmeno si era lasciato andare; era cresciuto a dismisura tanto da eguagliare Dio. Andava così pensando cosa potesse ormai offrirgli la vita; stava forse sperimentando la morte annunciata dal sorriso della sua maestra suora perché lui si era alzato in piedi ed aveva guardato Dio dritto negli occhi? A portarlo a cospetto dell’essere supremo erano state le persone morte, uccise dalla sua baionetta; era stata la notte passata a fianco del cadavere del suo migliore amico, irrigidito dal freddo e dall’assenza di vita che però lo aveva comunque scaldato in quelle ultime ore assieme; erano stati gli occhi terrorizzati della ragazza tenuta prigioniera così a lungo. Era forse questa la morte descritta dalla sua maestra? Il vuoto creato dal troppo, che dopo aver portato pienezza passava oltre e diventava qualcosa che non apparteneva all’umano? È così che la vita diventa Dio Ella stessa? Questo lui andava pensando a un anno dall’ “E’ finita!” e in quel momento la sua vita era diventata piatta perché avendo provato l’estremo ed il suo opposto, ora non sapeva più cosa fare di se stesso. Al di là di Dio non c’era pienezza, c’era il nulla da abitare, e la sua natura umana si rivoltava al vuoto perché era destinata all’esperienza.

La svolta

Lei era a una svolta. Doveva decidere come trattare il futuro, ma per farlo era necessario dare significato al già vissuto. Non sapeva decidersi se il passato, che si aggiungeva al passato, fosse altro seme cui consentire di morire per lasciar, finalmente, nascere il campo di grano d’agosto ancora in esso contenuto solo in idea; oppure fosse una litania sempre uguale a se stessa, lì posta perché lei, annoiata e vinta, finalmente capisse. Quante volte aveva opposto entusiasmo, anzi rapimento ai fatti della vita che però la rispedivano sempre e comunque là ai suoi box di partenza e forse anche più in dietro? Era come se questa realtà non avesse avuto occhi per lei, non c’era stata chiamata nè scelta. L’esistenza non l’aveva presa ad amante e lei era stanca di corteggiare un’essenza così dura di cuore. La vita l’aveva destinata all’anonimato e alla solitudine. Proprio lei che urlava e cantava d’amore. Così ora si trovava a decidere chi dovesse contenere le promesse, se il futuro oppure il passato. Se la promessa apparteneva al già stato esso non aveva mantenuto il patto fatto in giovinezza ed il futuro ora appariva scarnificato; ma se la promessa fosse invece appartenuta al futuro poteva forse il presente contenere un nuovo voto di avvenire? Era come se lei dovesse scegliere la vita oppure la propria persona; scegliere la vita significava aver affidato le promesse al passato e allora chiudere, tirare i remi in barca e considerare il poi come un tempo che si sarebbe riempito di vuoto e noia. Decidere di scegliersi significava non sentire più il bisogno di essere notata da altro, ma semplicemente riconoscersi da sé, e questo avrebbe permesso al futuro di contenere ancora la promessa di felicità. Lei però non sapeva se sarebbe riuscita ad essere più forte della vita. Forse il suo destino era semplicemente quello di cantare la sconfitta umana, una voce tra tante. C’è eroismo nella rinuncia? Dove l’uomo gioca la propria umanità? Nell’accettare l’ineluttabilità del proprio destino segnato dal passato oppure nell’accettare quella forza interna che spinge ad andare contro la vita già vissuta con una visione di avvenire diverso? Dove sta’ la vera risposta da dare alla vita? Lei questo andava pensando….

Mio diletto

Ho ricevuto la vostra missiva, mio diletto, e non sapete con quale piacere ho gustato le vostre parole. Esse entrano nelle mie stanze nei modi sempre rocamboleschi coi quali ardite arrivare a me. Quasi voi vogliate lasciare al caso la consegna di ciò di cui mi scrivete. È per questo che mi siete caro, mio diletto, perché mai avete la pretesa che io riceva le vostre attenzioni. Trovo una tale libertà in questo da spingermi a pensare che voi non ricerchiate la mia compagnia per una qualche manchevolezza della vostra vita, ma che al contrario la passione che vi porta a frequentare la mia più profonda intimità sia espressione dell’abbondanza della vostra vita. Avete scritto che volete un mio pensiero sull’idea che io completi voi e voi completiate me. Nulla di più sbagliato, mio diletto. Sì, lo so che da Platone in poi questo è divenuto il pensiero comune, ma no! Sia io che voi sappiamo la falsità di questa affermazione, solo che al mio cuore ciò è palese, mentre al vostro, mio diletto, ancora no. Lo è però al vostro corpo che mi ama nella coscienza di sapere sé essere completo. Vi prego, mio diletto, lasciate che anche la vostra mente veda la libertà che consegue dall’amarmi sapendo di essere voi stesso essere compiuto che in nulla abbisogna di me. Lasciate che la vostra mente possa godere di me come ne è capace il vostro corpo. Ammetto, mio diletto, che larga parte della vostra vita come della mia sia stata spesa nella ricerca della più profonda felicità, e non vi stimerei come vi stimo se non avessi percepito questa potente spinta in voi; il vostro viver ed il mio mi confermano che io e voi abbiamo incontrato in noi stessi i migliori compagni della nostra vita. La metà tagliata che tanto fa ricercare Platone nelle parole di Aristofane a uomini e donne, ognuno di noi stessi l’ha trovata in sé. Sì, mio diletto, io e voi siamo due esseri completi che si cercano per godere dell’altro senza pretendere di esserne completati. Io e voi non ne abbiamo di bisogno. La passione che ci infiamma i corpi porta all’estasi perché di nulla è carente, l’ardore delle nostre conversazioni ci spinge ogni giorno ad avvicinarci perché non richiede conferme. Io vi amo, mio diletto, e tremo per voi quando vi vedo invischiato in quel tipo di amore che ancora dipende dall’altro, ma ancora più temo per voi quando siete vittima di un amore del genere, ma amandovi io nella vostra completezza, appoggio lo sguardo su ciò che al momento vi sazia la vita e lo faccio mio perché vi voglio comodo quando raggiungete le mie stanze di edere adornate. Sappiate, mio diletto, che sempre io vi sarò compagna senza invadere la vostra vita con ciò che manca nella mia. Vi sarò compagna per ciò che esiste nella vostra.  Io sono cosciente di aver già conquistato ogni singolo pezzo di me stessa donna ed anche ogni singolo pezzo, mancante, di me stessa uomo. Per questo io sono autonoma e in nulla dipendo da altri esseri umani. Aristofane ha ragione quando dice che trovata l’altra metà gemella si genera la specie cui si appartiene; ed io ho generato me donna, come voi, mio diletto, avete generato voi uomo.

Mai tra noi ci saranno i silenzi che nascono dal fastidio di comportamenti pretesi a completamento, ma nemmeno mai ci sarà tra noi la potente esaltazione che nasce nello scambiare richieste per attenzioni. No mio diletto tra noi ci sarà solo la passione dei corpi ed il proficuo dialogo di due menti brillanti. Condivideremo parte della nostra vita, così, nei modi che capiteranno, rocamboleschi o scontati a seconda dell’occasione, ma ognuno di noi avrà la libertà di vivere se stesso prima di vivere l’altro. Questo sarà sempre ciò che mi lega a voi ed è per questo che vi amo, mio diletto, e con voi amo ciò che riempie la vostra vita. Vi lascio, come al solito la chiave dell’uscio sotto al vaso in terracotta dalla forma di anfora. Usatela a vostro piacere.

I due vecchini

Qualcosa non stava girando giusto tra quelle tre macchine. Era come se l’ultima stesse volontariamente spingendo le altre due giù dal dosso. Che strana impressione, pensò, guardando con la coda dell’occhio dentro l’ultima auto ove un vecchino e una vecchina chiacchieravano amorosamente. Passò oltre e dimenticò l’accaduto. Qualche giorno dopo rivide la stessa scena, ma questa volta le macchine erano parcheggiate ed una era la sua. I due vecchini, palesemente, stavano cercando di far scivolare le due macchine ferme avanti a loro spingendole a piccoli colpi di cofano.” E…no, questa non è un’impressione, lo stanno facendo sul serio!” Per evitare di perdere la propria auto giù per la montagna lei si fiondò sui due vecchini. Li fermò parandosi davanti a loro e, non proprio calma, chiese perché stavano cercando di distruggere quelle auto spingendole giù. Ma i vecchini, che erano veramente vecchini, le dissero che non avevano capito una sillaba del discorso perché’ erano totalmente sordi. Così lei dovette ripetere ogni singola parola urlandola come un’ossessa. Sentendo se stessa urlante e sillabante le venne da ridere tanto che quasi non riuscì più a parlare. Dopo tanto urlare sillabare e ricominciare i vecchini finalmente capirono il senso di quel ridere e sbracciare e candidi come bambini risposero: “ E’ perché siamo vecchi e invidiamo le cose giovani; non siamo delinquenti. Vieni a casa nostra e te lo dimostreremo.” Non fecero in tempo a finire la spiegazione che due energumeni si affiancarono a lei forzandola a seguirli. Andando lei pensava: “Caspita qui finisce male per me. Perché li stai assecondando?” Per la prima volta nella sua vita si trovò in una situazione ai suoi occhi senza via di uscita. Il futuro le appariva pericoloso ed obbligato. Si sentiva immobilizzata e reagire era impossibile. Arrivarono alla casa e lei fu forzata ad entrare. Solcata la porta si trovò catapultata in un grande ambiente dal gusto raffinato, solo non poco impolverato. Un locale in doppia altezza pieno di oggetti d’arte e quadri e colori e raffinatezza. I due energumeni risultarono essere i figli grandi dei due vecchini e dentro a quella casa presero un’aurea nobile e gentile come i cavalieri di antica data. La casa si animò di persone grandi e piccine. La discendenza. La casa era ricca di scale che ora i vecchini non erano più in grado di fare; quattro gradini, un corridoio, altre scale e poi un muro, là la loro stanza. Un piccolo letto matrimoniale, di quelli per veri amanti, dove non c’è spazio per sonni indipendenti, pareva schiacciato sulla parete, quella lunga a chiusura del luogo notturno di quelle nozze. Una casa dentro alla casa, ove la progenie era riluttante ad entrare per non disturbare la purezza di quel sentimento antico. Ma i vecchini erano veramente vecchini, e non riuscivano più ad entrare nel loro nido d’intimità, troppe le scale. Così nessuno abitava più quel luogo d’amore. Tutta la casa mostrava, in realtà, i segni del tempo vecchio, quando le forze si contraggono dentro alla propria sopravvivenza e non c’è più spazio per nulla oltre. I vecchini parevano infastiditi anche dalla larga progenie che si era piazzata in casa un poco per dovere d’affetto, un poco per profumo di futuro possesso. Per questo i due vecchini ogni tanto scappavano e lasciavano che il loro fastidio per la vecchiaia diventasse rabbia per il mondo giovane trovando sfogo nella spinta innocente del cofano in fronte fin giù dal dirupo. Per loro era un poco come un sacrificio all’abisso per saziarlo prima dell’estrema richiesta.

L’uomo d’oriente

Alzò gli occhi dal libro quando la sua spalla sinistra aveva avvertito il potente spostamento d’aria. Era così immersa nella lettura da essersi momentaneamente trasferita sulla westernland, là dove Einstein seduto, affrontava l’oceano per l’ultima volta, senza però saperlo. Così il ritorno della sua coscienza alla stanza ove era seduta fu doppiamente traumatico; primo perché fu di colpo obbligata a lasciare il profumo dell’acqua marina misto a gasolio che stava respirando a fianco della grande mente, secondo per via di quella massa nera, responsabile dello spostamento d’aria, che lei proprio non si aspettava. Appena il suo occhio si riabituò alla luce artificiale della stanza, fu in grado di vedere la causa di quel ritorno forzato alla realtà. Erano stati due uomini più alti del normale e più larghi del normale che si erano mossi di scatto perché chiamati al banco dell’accettazione. Indossavano una cuffia nera che si apriva in un ampia tunica. Erano neri dalla testa ai piedi. Questo la fece sobbalzare, perché piombò dal soleggiato blu cobalto dell’oceano nel nero profondo delle tuniche esasperato dai neon bianchi. Quei due uomini erano così diversi da tutto il conosciuto che magnetizzarono il suo sguardo e lei dimenticò l’oceano. Le cuffie aderenti nascondevano le orecchie lasciando che le lunghe barbe grigie divenissero protagoniste in quei volti anch’essi scuri. Vi erano preziosi ricami d’oro sulla cima dei loro capi incappucciati. Piccoli simboli più volte ripetuti erano ordinati dentro a spaziature anch’esse contornate ad oro. Forse significavano uno stato, a loro sicuramente familiare, ma per lei erano solo regali ricami. Il più grosso e più nero dei due portava poi una luccicante catena d’argento con attaccato un grosso ciondolo incastonato da piccoli diamanti rossi. Una corona, anch’essa diamantata, fungeva da passante tra la catena e il ciondolo, ma era anche il copricapo di Maria che assieme al piccolo Gesù occupava la superficie non d’oro del ciondolo. Erano una Madonna ed un bimbo sorridenti avvolti nei loro abiti rossi e blu. Anche la lingua da loro parlata produceva ricami sonori simili agli addobbi d’orati ed ai rubini delle vesti. Lei si chiese com’era possibile che l’arabo cristiano fosse alle sue orecchie assai piu’ armonico dell’arabo mussulmano; poi, pero’, penso’ che forse quello non era arabo. I due uomini apparivano regali perché così esotici e perché così agghindati. Lei rimase a guardarli. Si avvicinarono al banco dove la signorina iniziò a dare loro indicazioni su come sarebbe avvenuta la terapia. L’uomo con il ciondolo prese una croce di legno da una tasca, era una croce greca, anch’essa preziosa. Se la portò alla bocca ed iniziò a mordicchiarla. Più la signorina parlava, più lui mordeva la sua croce. Lei vide l’uomo che dentro alla sua veste regale stava comunque nudo davanti al suo futuro ignoto e incerto. Tornò sulla nave da Einstein e lo trovò seduto, solo e muto con gli occhi fissi nel tuorlo dell’uovo che stava mangiando mentre tutti gli altri passeggeri erano scesi a terra. Era anche lui nudo e impotente davanti alla fuga dall’Europa nazista. Lei si trovò, suo malgrado, tra due uomini, così diversi, così distanti, ma così uguali davanti a un’istante tanto simile della loro vita.

Il fazzoletto in borsetta

Frugando nella borsetta cercava il fazzoletto di cotone. Trovato, lo estrasse tirandolo da un angolo e le pieghe della stoffa si disposero a mostrarle la R ricamata a blu sul fondo azzurro. Il fazzoletto le riportò alla mente gli asciugamani che da anni giacevano intonsi, nelle loro confezioni trasparenti, sul ripiano del suo armadio anch’essi con le R all’insù. È allora che lei decise. “Voglio sposare un uomo che inizi con la R”. Lo pensò continuando a guardare il fazzoletto, ma con negli occhi gli asciugamani che giacevano là sul ripiano dal giorno dopo il matrimonio, quando lei, sposina, ve li aveva riposti come contrassegno della radiosa quotidianità che si sarebbe concretizzata da lì all’eternità. Il cotone antico, la spugna pregiata ed i ricami non li rendevano adatti all’uso quotidiano, ma erano perfetta rappresentazione del gesto sacro che ognuno di loro aveva donato all’altro. Nella mente di lei anche il set di pentole azzurre, che provenivano dall’Inghilterra e che teneva nell’armadio della sala, erano la rappresentazione della nuova vita sacra, ma essendo pentole comuni, un giorno, decise di usarle ed esse così passarono allo scaffale della cucina ed oggi erano ancora lì logorate dall’uso quotidiano. Insieme alle pentole negli anni si logorò anche il matrimonio fino a sciogliersi; il tempo passò e così gli asciugamani vennero dimenticati, mentre le pentole, senza più alcun significato, continuarono ad essere usate.
All’improvviso, quel giorno, mettendo le mani in borsetta, sentì l’esigenza di dare un senso a quegli asciugamani. Decise di recuperare ciò che impregnava le salviette dimenticate anni prima. Le venne voglia di sporcare il futuro di passato. Il suo, non certo il loro. Ecco il pensiero di tornare alla R. Voleva un legame con quel punto tanto potente da entrare negli asciugamani. Voleva solo questo. Il resto non era più necessario.
È incredibile cosa le donne a volte trovino nello loro borsette.
Nella sua aveva rincontrato il senso di loro, un sentimento oggi scremato da qualsiasi riferimento umano, ma ancorato nel suo corpo tanto da pungere ancora molte delle sue scelte.
Non so se è una cosa di specie o solo una sua caratteristica, fatto è che questa urgenza era là intatta nella sua borsa e ora era finita nuovamente tra le sue dita.
Lei la estrasse, senza un apparente motivo.
Non conosceva nessun uomo il cui nome iniziasse con la R. No, non era vero, in realtà ne conosceva parecchi, ma nessuno era da R stampata su fazzoletti ed asciugamani, nessuno le ispirava un senso plurale; pensandoci nessuno le ispirava nulla.
“Questa sì che è un’incrinatura della mia vita” pensò.
Così, nel tempo di una mano in borsetta optò per la tabula rasa, fece pulizia scopando via tutti gli uomini che le avevano occupato il pensiero in quel tempo; o forse più che occupato sarebbe opportuno dire: “erroneamente asservito”.
Strinse la R nelle mani e si soffiò il naso.
È così che lei smise di dare il fianco alle storie da poco; a quegli uomini che chiedevano, ma nulla volevano dare, o peggio a quegli uomini che manco chiedevano; alle loro parole piccole e alle loro situazioni ordinarie.
Voleva la R sugli asciugamani.
È così che si placò.
Aveva avuto modo di rigirarsela tra le mani a lungo la R in quegli anni, ormai ne conosceva ogni singolo punto cucito. Non desiderava più fare incontri piccoli, lei la R l’aveva in borsetta, se le fosse capitato di incontrarla di nuovo nel mondo, l’avrebbe sicuramente riconosciuta e quindi sposata. Altro non esisteva.
Si risoffiò il naso e andò a far compere.

L’amore algido

Lui possedeva due tesori; uno era se stesso, l’altro i suoi figli. Era un uomo nato brutto, nulla del suo fisico attirava l’interesse delle donne, se non forse l’altezza. Lei ricordava, molti anni prima quando l’aveva appena conosciuto, il senso di fastidio che l’incontro con lui le aveva procurato proprio a causa di quei lineamenti strani. Era stata la necessità del lavoro a obbligarla a tornare a vedersi con lui, altrimenti mai lei si sarebbe nuovamente avvicinata a quell’uomo. Poi dentro al lavoro lei scopri’ il vero valore di quella creatura alquanto spigolosa. Capì che il corpo fatto a quel modo era solo la protezione umana di un’essenza maschile rara di cui forse nemmeno lui era conscio. La rarità stava nella luce gioiosa con cui lui affrontava la vita; una mente intelligente e malleabile si accostava ad un cuore profondo e aperto; in questo modo lui fronteggiava la sua difficile vita, alquanto più difficile di quella di molti. Ma queste caratteristiche non concludevano quell’uomo raro. Nonostante l’estrema magrezza del corpo, lui era infatti molto più ingombrate, lo era tanto da andare oltre lo spazio fisico; lui entrava direttamente negli strati sottili dell’universo. Un pezzo di lui dimorava infatti alquanto vicino a Dio. Sì lui era un uomo dotato di anima, bella e solare e birichina. Questo era il suo primo e profondo tesoro: un corpo rinsecchito che conteneva un uomo palpabile. Lui si era mostrato a lei così un giorno per caso e da allora lei lo custodiva avvolto dalla loro amicizia dentro al suo cuore. Era un’amicizia lasca che permetteva ad entrambi di assaporare la libertà della propria vita; ognuno dei due con un polpastrello impiantato nell’altro, così di sicurezza, per sapere sempre dove andare quando l’affinità o la fatica chiamava. Proprio quell’amicizia libera le aveva fatto scoprire l’altro suo tesoro. Un numero elevato di figli che lasciava assaporare l’abbondanza della sua vita e che molto contrastava con le sue carni scarne. Lui in questo le era contrario, perché lei invece aveva carni abbondanti ed una vita in alcuni sensi alquanto limitata. Accadeva che si ritrovassero tutti assieme e così lo sguardo di lui si ampliava a ricomprendere il figlio di lei e lo sguardo di lei accarezzava i figli di lui. I suoi maschi erano ancora nell’età dell’accudimento, le femmine invece appartenevano già al mondo che si centra sui dialoghi, per le relazioni, e che ha in sé il seme dell’indipendenza per quel che riguarda se stessi. Dietro agli sguardi reciproci accadevano poi gesti e seguivano parole che legavano i cuori. Sì quella era un’amicizia grande perché dentro ci stava tutto di loro. Lui era paterno con il figlio di lei ed il ragazzino lo guardava con affetto misto ad ammirazione, lei era materna con i figli di lui, dava ai maschi attenzioni di servizio per accertarsi della loro serenità ed incolumità e dava alle ragazze tempo e chiacchiere per avvicinare la sua femminilità matura alla loro nascente e loro le restituivano affetto ed interesse. Il loro era un rapporto rivolto oltre se stessi e capace di accogliere tutto dell’altro. Un giorno lui le disse che aveva una fidanzata, per un poco aveva voluto tenersela per sé, ma ora era tempo che anche lei sapesse. Quando lui smise di raccontare, agli occhi di lei apparve una fidanzata comoda, straniera di nascita e di vita, poco impegnativa e sempre bella come lo sono le fughe d’amore che non impegnano la vita ma saziano i sensi. Lei era felice che nella vita dell’amico vi fossero momenti di pura bellezza senza pensieri, lui se lo meritava. Poi col tempo le parole di lui cambiarono e la fidanzata diventò compagna nella sua bocca; no questa non era più una fuga d’amore era qualcosa di molto più profondo anche se ancora la forma era quella della fuga. Per anni lei seppe della compagna senza però mai avere occasione di incontrarla finché un giorno capitò, come capitano gli appuntamenti non programmati. Lei era curiosa di conoscere la donna che occupava il cuore del suo amico, donna sconosciuta, ma famigliare. Era curiosa perché sentiva un legame verso quella sconosciuta che nasceva dal profondo del rapporto con lui: se per lui era importante lo era anche per lei proprio per via di quell’amicizia aperta che tutto accoglieva. Passarono un fine settimana assieme con tutti i ragazzi; anche la compagna aveva infatti una figlia, così di ragazzini ce ne era a sazietà. In questo modo lei toccò con mano la loro forma d’amore. Era bella quella donna straniera, non oggettivamente bella, ma aveva tratti dolci e uno sguardo ammagliatore; si muoveva lentamente ed era lieve nei sorrisi e nei dialoghi. La parte maschile di lei capì perfettamente perché l’amico si fosse legato a quella donna che chiedeva attenzioni e tenerezza. L’amica però osservò con sorpresa la modalità con cui la compagna chiedeva attenzioni. Lei lo faceva togliendolo dalle situazioni, il suo era un amore esclusivo ed esigente. L’amata amava l’amico di un amore annientatore che si ripiegava su se stesso invece di aprirsi al mondo; un amore incapace di accogliere ciò che va al di là dei propri desideri. Quello era un amore che dietro alla dolcezza nascondeva la pretesa. Incuriosita da questa modalità, l’amica spostò l’attenzione sui ragazzi; guardò come la compagna trattava la figliolanza, ma si accorse che la compagna non trattava affatto la figliolanza, ci stava semplicemente accanto con il suo sorriso dolce, non un gesto verso di loro, non una parola; che differenza con lui che accarezzava la figlia di lei con gesti, parole ed attenzioni con la stessa modalità paterna che aveva verso i propri figli e verso il figlio dell’amica.
Lei pensò che no, non era la forma d’amore che voleva toccare nella sua vita; no non era la forma d’amore che si meritava quel tesoro d’uomo. Poi pensò anche che no non era la forma d’amore che si meritavano quei tesori di figli. Si affaticò molto a vivere l’amore del suo amico perché non risuonava di libertà e lei sapeva se stessa libera e pure il suo amico libero e così educatamente si sottrasse. Sola, nell’intimo della sua casa pensò a quanto lavoro aspettava il suo amico per fare di quell’amore da luna di miele un amore eterno. Sempre sola nell’intimo della sua casa lei aggiunse una categoria alle forme d’amore che conosceva: l’amore algido.

Il libro

Se lo girava tra le mani con movimenti a metà tra il riverente e l’urgente, come quando si sa di avere un tesoro tra le dita che potrebbe rompersi in un istante. A palmi aperti accarezzava con i polpastrelli la figura dipinta in copertina attardandosi un poco sulle lettere che componevano il titolo poiché provava un piacere tattile nell’accarezzare un tale spessore di parole umane. Mise il libro in verticale e passò i pollici su e giù sulle pagine ingiallite dal tempo sentendo il solletico della cultura. Le sue dita stavano sostenendo tutto il pensiero umano raccontato in una storia. Lei provava meraviglia. Era arrivato per posta; un libro già usato, carico delle emozioni di chi in precedenza lo aveva posseduto. Così la donna aveva comprato non solo la storia della filosofia, ma anche la vita di chi con lei aveva passato la notte. Aprendolo a caso, si accorse di poter leggere accanto alle parole stampate quelle appuntate da sconosciuti che, prima di lei, avevano amato lo scorrere del pensiero narrato. Una firma in blu che il tempo aveva spostato verso il porpora; Eugenio. Di Eugenio ora lei sapeva che era nato nel 1972 e che per un certo periodo della sua vita aveva amato i riccioli sulle “i” e l’ Etica di Spinoza. Un amore leggero, tremulo, che quasi ha paura ad appuntarsi i concetti perchè non suoi. Sicuramente un amore obbligato e poi velocemente dimenticato. A lei faceva molto strano una firma così abbondante in confronto alla secchezza delle linee si sottolineatura e alla leggerezza delle parentesi laterali tracciate; e poi gli asterichi, tutti quegli asterischi a fianco dei capitoletti, quasi a dire: ” fatto” ” studiato” “andato”. Sì forse Eugenio aveva anche perso tempo in quel libro. Certo è che dentro a quel libro c’erano tutti i filosofi, c’era l’autore e c’erano i lettori passati. Ora lei poteva far sua tanta abbondanza di menti e parole. Il libro proveniva dal passato, quasi remoto, ma era arrivato nelle sue mani attraverso la più recente tecnologia, passando dal presente quasi futuro. Tale pensiero accresceva in lei l’entusiasmo per questo oggetto che possedeva dentro di sé il risultato ottenuto dal massimo sforzo delle menti di molti. Si abbandonò a lui, immergendosi nelle parole che la portarono in epoche estranee per restituirle concetti familiari, raccontati nel tempo che scorre. Dimentica del mondo esterno lei entrò nelle lettere delle parole, fin dentro al loro scheletro, e le fece ballare poi sulla propria musica fino a che la notte divenne chiara e nuove idee le nacquero in testa. Allora chiuse il libro soddisfatta e, paga, si addormentò. Sognò l’amore per le parole. Sognò il linguaggio, suo amante, con il quale giocava giochi proibiti. Sognò il tomo che le aveva portato in dono il frutto della passione nutrita dai sapienti del passato. Poi semplicemente sognò.

Il Vallecetta

Lei aveva la montagna nei piedi, le si era incastrata nelle dita molti anni fa quando era poco più che bambina. Per anni, d’inverno, quando la coltre di neve copriva prati e rocce, ogni singolo punto di quell’universo bianco aveva lasciato il suo gusto dentro ai movimenti di lei, così oggi quando le capitava di parlare di quei luoghi in realtà lei poteva solo raccontare di quell’ incredibile intesa che muri e dossi avevano creato con il suo corpo. Lei era in grado di sciare ovunque, ma in nessun luogo provava quel senso di appartenenza che sentiva scendendo da queste piste. Aveva provato a passeggiare nei medesimi luoghi in estate, ma la montagna le era molto più estranea. Solo in inverno si incastrava in quel modo con i suoi piedi. Così, oltre al piacere di sciare qui c’era anche l’amore per il luogo. Un amore dato dalla profonda conoscenza che nasce, a sua volta, dalla lunghissima frequentazione. Il suo era un amore familiare; non l’aveva scelto, ci si era trovata dentro e in esso era cresciuta. Quando fu tempo che suo figlio mettesse gli sci ai piedi, lei lo portò a conoscere la montagna. Gliela presentò come i suoi piedi la conoscevano. Non era venire giù elegantemente da un muro, era godere nel scendere dal muro del tremila, proprio quello li’ che chiedeva sì capacità tecnica per non ammazzarsi, ma soprattutto apertura mentale per giocare, poi, con i due larghi dossi che, a fondo discesa, potevano farti volare o fermare. Non era solo scegliere se correre giù lungo l’asperità della Sant’Ambrogio a capofitto o preferire il panettone sorgente della Praimont; era anche sapere in anticipo, solo guardando neve e montagna, quando il panettone sarebbe stato più una pietraia che una pista. Non era solo godersi la parte finale nel bosco della Bimbi al Sole, ma sapere quali curve stringere per far si che fosse la montagna a spingerti lungo l’altopiano invece di dover racchettare e sudare da te. Non era solo scegliere gli Ermellini per evitare i lastroni rapati della Stella Alpina; era anche scegliere le sue morbide forme per il gusto di rendere perfette le curve senza esasperare il lavoro di gambe. Oppure scegliere l’Isabella proprio per intensificare il loro movimento ed affinare il gesto tecnico usando le sue incalzanti cunette. Il bimbo cresceva imitando la madre curva dopo curva, poi anticipando la madre curva dopo curva. Un giorno lui si staccò da lei dicendole ti aspetto giù. Lei lo guardò scendere e capì che la montagna ora era anche dentro ai piedi del figlio. Lo capì perché nei suoi movimenti c’era molto di più che l’armonia del gesto tecnico; c’era disponibilità ad ascoltare la montagna e ad assecondarla per trovare insieme un più profondo piacere. Da quel giorno, la madre seppe che i due si sarebbero frequenti anche da soli. Oggi lei, ferma per una convalescenza, guardava dal basso il ragazzetto scendere le piste con la montagna nei piedi, la perizia negli arti ed un profondo sorriso negli occhi nato da quel connubio perfetto.