New York giorno 1

Eccoci finalmente nella Grande Mela; il primo assaggio ha l’odore forte del frutto andato a male sotto al sole d’estate. È un odore che si attacca al caldo, o forse è il caldo che gli si appiccica e lo fa cadere e spiccicare sui marciapiedi, così tu non puoi far altro che camminarci dentro e sperare di sopravvivere. Poi però la notte si porta via tutto compreso la nostra stanchezza ed il nostro fastidio per questa città afosa, appiccicosa, puzzolente, sporca e traboccante di umanità sudata.
Da dove inizio a conoscere quest’isola che ha voluto presentarsi così al mio sguardo stanco? Cerco un bandolo per metterla in chiaro ai miei occhi. Decido di partire dal basso; il sotto mi pare un buon punto per uscire dal buio.
Ground 0 è la prima fermata. Là dove la città è morta in un giorno seppellendo l’occidente sotto al odio fanatico di una religione presuntuosa ora ci sono due vuoti gemelli riempiti d’acqua e racchiusi a quadrato dai tremila nomi spariti. Visitare le fondamenta dei grattacieli abbattuti che ora ospitano il museo della memoria è come tornare a quel giorno in cui ognuno di noi ha respirato il medesimo fumo ed è quasi morto asfissiato. Ma dura poco; perché la città in questo punto è di una bellezza mozzafiato e mostra tutta la sua modernità nel nuovo che non è un rifatto è solo un nuovo. Ovunque alzi gli occhi i grattacieli ti parlano parole uniche, consci di dover dare qualcosa di molto prezioso in cambio del cielo rapito all’ umanità. È saltando di grattacielo in grattacielo che si arriva alla statua della Libertà. La Signora, come la chiamano qui, sta ritta sulla sua isola sbirciando con un occhio la grande mela e con l’altro il mare. Sono anni che non incrocia più gli occhi degli immigranti che ad ogni sguardo le davano un pizzico di gioventù in più, ma lei pare non darsi pensiero perché ora è questa città, un piccolo mondo nel mondo a nutrire la sua giovinezza.
Lei è il primo ponte di questo luogo che ha reso la costa un valore assoluto; filtro di vita, unione di luoghi. Dopo di lei, il ponte di Brooklyn che le siede accanto.
Lo percorriamo in bicicletta masticando felici le nostre cicche quando i miei occhi vengono presi dal tratto di costa appena sotto al ponte. È l’architetto ad essere sollecitato e mi butto a vedere cosa avviene là sotto.
Un lungo giardino a disposizione di tutti, appoggia moli dai volti nuovi nel fiume. Le industrie opulente hanno lasciato le loro fondamenta a parchi, piste, prati, campi da gioco, tavoli e barbecue. Ed è qui che la città per la prima volta ci parla. Sam, di origine araba fidanzato a una donna Domenicana ci invita a cena; ha cucinato spiedini di pesce e verdure. Scendiamo dalle nostre bici e ci godiamo il tramonto che cala sui grattacieli di Manhattan seduti a fianco di sconosciuti che ci hanno mostrato il profondo cuore di questa città ove ognuno è straniero ed indigeno allo stesso tempo.
Torniamo in Time Square incuranti di quanto sia appiccicosa, popolosa e puzzosa la città vicino al nostro albergo perché abbiamo scoperto che questo è solo un episodio dentro al vero valore cosmopolita di questo porto dell’umanità.