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A cena da zia Daniela

Piace a tutti andare a cena in quella casa arroccata sui tetti di piazza del Carmine. Nessuno risponde mai al citofono numero tredici, ma il portone magicamente si apre sempre. Entrare in quel civico richiede un certo coraggio urbano data l’assenza di marciapiede e le rotaie del Due a cinquanta centimetri dal muro… quanto spesso, però, le esperienze speciali si nascondono dietro ad un rischio iniziale…
Aperta la porta e salvata la vita ti ritrovi nell’androne d’epoca, elegante, ma non prezioso; devi allora: passare un cancello in ferro battuto, spingere una porta a vetri pesantissima con tutte e due le mani sulla maniglia in ottone, incastrarti nell’angusto vano scala, salire su un ascensore in legno cigolante e fare un ultimo piano a piedi sulla scalinata di pietra, prima di ritrovarti all’ingresso di un’esperienza rara fatta di bello, calore, eleganza e quel pizzico di pazzia che in fondo caratterizza ogni genialità umana.
La porta di casa si apre contro un muro di mattoni a vista vecchio quanto l’edificio e devi scegliere: “di qui o di là?” Di là finisci nel niente, di qui si apre la meraviglia. Un open space sotto a travi di legno sorrette ed abbracciate da sorelle metalliche. Un ambiente bucato da aperture che ti spingono ad indovinare Milano attraverso ciò che si trova sopra i venti metri d’altezza. I grattacieli e le guglie delle chiese ti appaiono attraverso una foresta di verde quasi tropicale dalla quale cadono palle di Natale, appese ad adornare non un periodo, ma una veduta.
La città è un quadro alla parete in questo luogo dove pranzi e cene si trasformano in un’esperienza estetica sicuramente cara ai dandy di fine ottocento, ma sconosciuta a uomini e donne del duemila.
Questo è il biglietto da visita degli inviti a casa di zia Daniela; mia zia, ma anche la zia di mia sorella, di mio figlio, dei miei nipoti, di mio cognato, delle mie amiche, dei miei cucini, dei loro figli ed ormai, credo, zia anche per le sue sorelle.
Non si mangia mai seduti su sedie, ma accomodati in poltrone che circondano il tavolo di legno rotondo, tra la calce bianca del cavedio e il Corian rosa della cucina; oppure per traverso nel centro del soggiorno sul tavolo di cristallo con le ruote tra libri e sculture.
Le mense non sono coperte da tovaglie, ma solo in parte nascoste da teli o elementi di legno o di metallo sopra i quali è apparecchiata la tavola, un universo di oggetti da scoprire tra una portata e l’altra.
Tutti noi ormai l’abbiamo come abitudine, che in realtà è più un vizio ed un vezzo, di chiamare la zia ed autoinvitarci a mangiare da lei. Ci andiamo alla spicciola, perché queste sono serate, o mezzogiorni, che vuoi tenerti per te: un poco come quando ti chiudi la porta alle spalle, lasci il tempo fuori e ti permetti un lungo rilassante bagno con candele accese, profumi intensi e creme vellutate.
Il vino non manca mai e le portate hanno sempre una storia che le accompagna che non nasce dai vapori dell’alcool, ma da una vita vissuta intensamente dove idee, sogni ed accadimenti hanno creato una miscela di Bello le cui tracce sono tutte lì nell’appartamento della zia a mostrare se stesse dentro agli oggetti ed ai ricordi.
Il Bello in questo luogo lo respiri assieme all’aria e lui, che è strabordante ed invasivo di carattere, occupa tutto ciò che qui accade e chiunque qui vi si trovi. Diventano belle le persone da esso nutrite e siccome il bello è anche molto rilassante, ognuno riesce a lasciarsi andare, aiutato dalle vecchie poltrone usate al punto giusto da essere estremamente comode, e si ritrova a vivere una parte di sé difficile da sentire presi dal vivere quotidiano.
L’ultima portata, che è sempre un dolcetto regalo di amici passati prima alla mensa di zia, non ti lascia pesante per il pasto mangiato, ma leggero per il tempo trascorso immerso in questo miscuglio di oggetti e colori che ti ha appena insegnato cosa sia l’armonia e la pace che da esso deriva quando te lo trovi apparecchiato su un tavolo.
Vi consiglio se vi capitasse di passare per piazza del Carmine, cercate mia zia Daniela, portate un dolcetto e chiedete un posto alla sua tavola, ne avrete in ricambio l’esperienza del Bello.

Telefonata

La giovane donna era impegnata in una telefonata di lavoro. Il suo collega, dall’altro capo del cellulare, aveva trascinato la conversazione in noiose giustificazioni per cercare di ottenere da lei un autorizzazione che non poteva essere data. Come era solito fare, lui la stava letteralmente investendo di parole; lei normalmente lo ascoltava e partecipava al dialogo perché, oltre il puro passaggio delle necessarie informazioni c’era per lei anche il piacere di ascoltare una voce monotona e cadenzata che aveva la capacità di rilassarla. C’era nascosto nel dialogo di lavoro il puro piacere umano di correre dietro a una voce conosciuta. Ma non questa volta! La conversazione era diventata un monologo perché lei era scivolata via. Mentre lui elencava mille difficoltà, il pensiero di lei era rimbalzato contro un decolté che il giorno prima aveva catturato il suo sguardo e che ora tornava imponente ai suoi sensi. Di colpo quelle rotondità in parte nascoste allo sguardo dentro ad un reggiseno mal celato erano venute a riempirla di sensazioni. Lei era tornata ad accarezzarle con gli occhi, come aveva fatto il giorno prima; ma dietro agli occhi, forse cullata dalla monotonia di lui, si era acceso forte il desiderio di bello e lei aveva preso ad accarezzare quel seno con tutto il suo corpo. Il bello è anche una sensazione tattile e non si può goderne senza toccare. Non era un seno grande, ma il corpo ossuto lo rendeva estremamente rotondo agli occhi e florido alle mani. Stava appoggiato al reggiseno come un braccio teso oltre il balcone che cerca di afferrare un albicocca dall’alberello che per la prima volta ha reso feconda la propria fertilità. Quel seno era uguale, tutto proteso in fuori a cercare occhi con cui fare l’amore. Gli occhi di lei avevano risposto al richiamo ed ora, nascosta in quella conversazione, si stava lasciando sedurre da quelle forme morbide ed esigenti. Si ritrovò ad accarezzare con le labbra le vene rosee che lo segnavano in superficie come una mano che contiene un mondo rotondo e che non lo concede. Lei chiese di poter entrare nel piacere che solo un corpo femminile sa nutrire. Ci entrò e si saziò di quelle forme che si concedevano inarcandosi e diventando più grandi. Bevve di loro poggiando le sue labbra su quei capezzoli che parevano piccole giuggiole rosse appena spuntate. Si appagò sentendosi addosso quei seni che si muovevano portati dal respiro di un corpo non voluto. La sensazione di bello era così vivida che il suo stesso corpo reagì come era abituato a reagire al tocco delle mani di un uomo. Lei si perse in un orgasmo mentale e fisico che l’aveva spinta in un mondo lontano, da dove era difficile tornare perché significava doversi ricomporre, irrigidirsi e vestirsi. Rimase là, libera e nuda, a sentire la bellezza del suo corpo che rispondeva al tocco di quel seno gonfio di piacere contraendosi ed espandendosi oltre ogni confine. Perse il controllo della respirazione, delle parole, non c’era più nulla se non le sue reazioni ed era bello. Tutto era immensamente bello e pieno. Ogni singola sensazione nata e provata le diceva che lei era donna, profondamente donna.
Lui continuava nel suo monologo, a darle ragioni e spiegazioni per portarla là dove avrebbe voluto. Oh ignaro contenitore sonoro di un orgasmo di donna, lui parlava, ma lei non c’era più.