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Gioia
Il vecchio che amava i libri
La vita gli era scivolata nei libri da un tempo tale che la sua mente aveva ormai dimenticato.
Ma come è possibile ricordare quando la ricerca si trasforma in risultato? Il desiderio in felicità?
Da giovane il suo spirito entusiasta gli aveva donato una doppia vita; una nel mondo della volontà e delle azioni dentro al tempo scandito ed una seconda nel mondo dei significati dentro alle parole scritte ove il tempo è solo artifizio.
Ma la sua vita scandita era precocemente sfumata sotto al peso della fatica, si era avvizzita, come una prugna secca, fino ad arrivare a dissolversi, come un corpo morto, nella vecchiaia. Non era stata una vita vuota o sfortunata; era solo stata una vita ordinaria nella quale allo sforzo non aveva quasi mai corrisposto la soddisfazione, e la delusione aveva così preso sempre più spazio allagando i desideri finché questi si erano sciolti come il sale in un mare di coscienti rinunce, necessarie, ai suoi occhi, per mantenere integra quel poco di energia rimasta. Poi era stato il turno degli acciacchi di salute che avevano ingigantito il senso di fatica mortale e schiantato la sua quotidianità contro quel grande platano che è l’inattività.
Eppure lui era un uomo felice.
Il suo fuoco, se pur affievolito, non si era spento nelle rinunce. Troppo grande era la riserva di legna ove il tempo era artifizio.
E lì, alla luce tremula di una candela, i desideri erano diventati contagiosi a tal punto da rendere l’uomo immune alle delusioni ed all’abitudine. Le parole erano diventate lo spazio ove lui sapeva la propria esistenza capace di accumulare energia come una molla compressa e di rilasciarla sotto forma di vita senza il bisogno di alcun fatto compiuto o di altro essere umano.
Si sapeva uomo vorace e saziava la sua fame con la conoscenza e, come dopo ogni pranzo che si rispetti, lui, poi, sentiva le proprie viscere appagate di senso ed il cuore sazio di amore.
Questa era diventata la sua vita e così lui ora passava le sue gornate da quando, quel giorno dimenticato, aveva trasformato la ricerca in risultato e il desiderio in felicità.
I due cappelli
Era un cappello nato bello; spesso faceva coppia con un soprabito tortora, del quale conosceva intimamente solamente il bavero che sfiorava nelle fredde giornate di vento generando un fascino maschio. Oggi, però, il sole regnava sovrano nel quarto cielo e sulla terra, cosi il soprabito era rimasto a dormire nell’armadio tra giacche e pantaloni mentre lui, invece, respirava aria primaverile, conscio di avere ancora appiccicato addosso un poco del fascino di cui era invernale artefice. Era un cappello capace di molte forme; lo stare per lui significava parola mostrata ed ora si trovava tra le dita dell’uomo, leggermente ricurvo verso il basso quel poco che basta ad indicare la propria immediata dipendenza dall’altrui reazione. Non che fosse in gioco la vita o la morte, ma sicuramente la felicità o la tortura. Questo esprimeva quel suo stare ritto, ma un poco all’ingiù. Aveva di fronte una dolcissima falda di paglia, imbellettata da un nastro verde ed una rosa purpurea che pareva giocare a nascondino con la timidezza. Era fresca e profumata, ancora per nulla sgualcita dalle ore calde della giornata. Aspettava curiosa il prossimo istante, il momento di là da venire, come se in esso vi fosse racchiuso tutto il senso del suo futuro. Per questo pareva sorridere, mentre si abbandonava nelle mani della ragazza. Anche lei stava protesa un poco all’ingiù perché’ anche lei dipendeva da ciò che sarebbe stato. La sua era l’attesa di un’ azione. Aspettava quel unico movimento audace che avrebbe spazzato via la sua reticenza. E fu l’attesa che il cappello colse con i suoi sensi; solo questo lui aspettava. L’uomo baciò la donna. I cappelli caddero a terra rotolando uno sull’altro. E’ cosi’ che nacque la felicità.
Quattro sorrisi
Questa e’ la storia di quattro sorrisi tutti compresi nel tempo di un mese. Il primo arrivato con la luna piena dentro ad un pullman tra Orio al Serio e Milano. E’ un sorriso straniero che si concede di rado, ma e’ sempre presente nel scendere i gradini del mezzo quando la porta si apre in via Cadamosto. Quest’anno e’ apparso mentre le porte ancora non erano aperte. Ci siamo visti e quel viso bambino si e’ illuminato tutto per me. Un sorriso grande che racconta di amore e riconoscenza, ma che in quel momento era solo pura felicità di essere un cima a quei quattro gradini pronto per scenderli rapido e finire nelle mie braccia e nella vacanza italiana fatta di caldo, frutta e bagni al mare.
Il secondo sorriso e’ un sorriso adulto, ma mica poi tanto. Mi e’ saltato in braccio come una furia. Me lo son vista arrivare che quasi prendo paura perché inattesa era tanta irruenza. Urlava felice: “ devo dirlo a faccia di mamma, la mia è lontana ed io non resisto a tener tutto dentro perché sono troppo felice”. Così è toccato a me, per conto terzi, prendermi tanta felicità. Lui era estasiato per un 18 in statistica ed un 25 in altra materia. Ma era il 18 ha farlo volare. Ci sono voti che si rifiutano, e voti per cui invece si è grati. Chiunque nato umano sa che un 18 in statistica o anatomia o diritto privato oppure statica è manna dal cielo; si prende senza fare gli schizzinosi e lo si usa come rampa di lancio. Primo dei lanci è il gran sorriso da donare in giro! Lui si sentiva così leggero da non riuscire a tenere i piedi per terra e così saltava in aria come fa un palloncino pieno di Elio spinto dal vento. Mi prese tra le sue mani e, abbracciandomi forte, mi trascino’ lassù nel cielo blu. Tornando a terra io ho poggiato i piedi al suolo, ma lui, più felice che mai, con un salto balzo si è lanciato nelle braccia di un amico che in quel momento sopraggiungeva; ripetendo, con lui, l’acrobazia appena fatta con me e lasciando me lì felice e sazia a guardarlo.
Il terzo sorriso nasce dalla vera tensione da prestazione. Lui e’ un ragazzotto più bello del bello al suo primo esame. Quello di terza media. E’ sicuro e spavaldo per l’ottimo anno scolastico appena passato, ma e’ la sua prima volta e sente fortissimo la serietà della situazione e della commissione, schierata completa di preside e consigliere. Li’ tutti riuniti per il suo esame. Prima di entrare anche solo un lieve battito d’ala a lui vicino potrebbe farlo esplodere come la dinamite, ma lui tiene botta e nel momento medesimo in cui inizia a parlare davanti a un tale auditorio si placa, presente più che mai a se stesso e sostiene uno splendido esame. Il tempo di uscire e smaltire l’adrenalina ed eccolo il meraviglioso sorriso arrivato ad illuminare a giorno quel volto più bello del bello. E’ un sorriso forse un po’ frastornato, ma orgoglioso di aver dimostrato a se stesso e al mondo di saper gestire tale momento elevato. E’ anche un sorriso assai sollevato per aver regalato al passato la prova d’esame e per potersi ora godere ogni istante della vacanza d’estate. Questo e’ un sorriso che molte ore ha vissuto; l’ho visto spegnersi solo quando il sonno l’ha colto.
Il quarto sorriso e’ un sorriso assonnato, nasce da un viaggio lunghissimo di ritorno a casa dopo un anno di “Pura vida”. Lo ha acceso un occhio aperto a metà che di colpo ha trasformato il sonno in realtà. E’ un sorriso rotto in due meta’ perché dentro a tanta felicità per l’odore di casa ormai ritrovato c’è anche il profondo dolore per il paese, gli amici e quella nuova famiglia lasciati lontano. Loro hanno reso l’anno appena passato il più bello della sua vita arrivata a contarne di anni ben diciassette. In quel sorriso di felicità c’è poi anche dentro l’entusiasmo del nuovo inizio . La sua vita italiana riprende, ma con dentro il nuovo del Costarica e scuola, amici e famiglia dovranno accogliere questa grande ricchezza. Così quello e’ un sorriso che dice eccomi qua io sono pronto e voi? E’ un sorriso che chiede del nuovo e lui di sicuro lo riceverà.
Io credo che ricorderò questo mese di Giugno come il mese dei quattro sorrisi, ognuno portato da un motivo diverso, e ognuno incastonato perfetto dentro a una vita che sboccia.
Il soldato
Era passato un anno ormai dal giorno in cui due parole, dapprima appena bisbigliate dentro di sé, poi timidamente sussurrate ed infine urlate al cielo avevano cambiato la vita a quella generazione sfortunata cui lui apparteneva. “E’ finita…” “E’ finita?” “E’ finita!” Quel canto universale ebbe il potere di mondare il suo corpo dell’adrenalina, da anni unico sussidio alla sua sopravvivenza in quel mondo di morte. Lui, uomo fuso alla trincea, finalmente si sentì libero, libero di non dover resistere. Si guardò intorno in quei luoghi che non riconosceva perché così ostili alla vita e, per la prima volta, si permise di cercare i segni dell’autunno, la natura al posto della forza nemica. Non era facile lasciarsi andare alla tranquillità, l’abitudine era altra. I giorni passarono e la trincea si allontanò. Quello sguardo dato alla terra tra buchi e i fili spinati, lasciò il posto a un’improvvisa voglia di vivere. Tutto ora era amico, tutto parlava di futuro. Là al freddo del fronte non c’era tempo per distrarsi con pensieri di vita, c’erano solo i compagni, carne pronta da macello come lui; ma ora, ora tutto era cambiato e, nonostante l’autunno, il mondo era in fiore ai suoi occhi. Tornò persino ad appoggiare lo sguardo su una ragazza, così solo per avere in cambio un sorriso. Lui la guardò, lei rispose agli occhi di lui e, per la prima volta in molti anni, nessuno dei due chiese all’altro un poco di vita per poter sopravvivere; furono liberi di potersi semplicemente sorridere e si sorrisero a lungo. La vita ricominciava, lentamente, ma ricominciava. Ora a distanza di un anno, il fermento dei primi tempi aveva lasciato il posto ad altro, perché non si poteva andare avanti ignorando ciò che gli occhi avevano visto ed il cuore provato. Era stato tanto vicino a morte e dolore da neutralizzare ogni angoscia; lui conosceva la paura così bene da averla resa innocua. Aveva anche dovuto neutralizzare pietà e rimorso. Ogni atto della vita passata era avvenuto più e più volte e questo bastava a dargli il rango di umano. Lui, oggi, era un Uomo che conosceva tutto perché aveva vissuto gli estremi. Sapeva tutto perché aveva dovuto staccare l’atto dal giudizio e questo lo aveva reso molto simile a un dio. Lui questo lo percepiva; così erano giorni ormai che andava pensando a quando, da bambino, aveva chiesto alla sua maestra delle elementari, una suora sincera, di quelle che amano onestamente e che pertanto la dottrina non aveva indurito, cosa sarebbe successo se lui fosse mai riuscito a vedere Dio. Lei gli rispose con quel suo dolce sorriso che sarebbe semplicemente morto perché una volta conosciuto Dio non ci sarebbe più stato spazio per nulla. La vita si esauriva in Dio. Non in realtà lei disse: “ La vita, conosciuto Dio, diventata Dio Ella stessa.” Queste parole gli martellavano il cervello perché, oggi, lui le riconosceva vere. Era stata la guerra a mostrarglielo. Lui si era accorto di aver consumato nel tempo di pochi anni ogni tipo di esperienza, forzato dagli eventi era entrato nei più reconditi anfratti dell’essere umano e ne era uscito vivo con un impressionante bagaglio di vita; non era impazzito e nemmeno si era lasciato andare; era cresciuto a dismisura tanto da eguagliare Dio. Andava così pensando cosa potesse ormai offrirgli la vita; stava forse sperimentando la morte annunciata dal sorriso della sua maestra suora perché lui si era alzato in piedi ed aveva guardato Dio dritto negli occhi? A portarlo a cospetto dell’essere supremo erano state le persone morte, uccise dalla sua baionetta; era stata la notte passata a fianco del cadavere del suo migliore amico, irrigidito dal freddo e dall’assenza di vita che però lo aveva comunque scaldato in quelle ultime ore assieme; erano stati gli occhi terrorizzati della ragazza tenuta prigioniera così a lungo. Era forse questa la morte descritta dalla sua maestra? Il vuoto creato dal troppo, che dopo aver portato pienezza passava oltre e diventava qualcosa che non apparteneva all’umano? È così che la vita diventa Dio Ella stessa? Questo lui andava pensando a un anno dall’ “E’ finita!” e in quel momento la sua vita era diventata piatta perché avendo provato l’estremo ed il suo opposto, ora non sapeva più cosa fare di se stesso. Al di là di Dio non c’era pienezza, c’era il nulla da abitare, e la sua natura umana si rivoltava al vuoto perché era destinata all’esperienza.
La svolta
Lei era a una svolta. Doveva decidere come trattare il futuro, ma per farlo era necessario dare significato al già vissuto. Non sapeva decidersi se il passato, che si aggiungeva al passato, fosse altro seme cui consentire di morire per lasciar, finalmente, nascere il campo di grano d’agosto ancora in esso contenuto solo in idea; oppure fosse una litania sempre uguale a se stessa, lì posta perché lei, annoiata e vinta, finalmente capisse. Quante volte aveva opposto entusiasmo, anzi rapimento ai fatti della vita che però la rispedivano sempre e comunque là ai suoi box di partenza e forse anche più in dietro? Era come se questa realtà non avesse avuto occhi per lei, non c’era stata chiamata nè scelta. L’esistenza non l’aveva presa ad amante e lei era stanca di corteggiare un’essenza così dura di cuore. La vita l’aveva destinata all’anonimato e alla solitudine. Proprio lei che urlava e cantava d’amore. Così ora si trovava a decidere chi dovesse contenere le promesse, se il futuro oppure il passato. Se la promessa apparteneva al già stato esso non aveva mantenuto il patto fatto in giovinezza ed il futuro ora appariva scarnificato; ma se la promessa fosse invece appartenuta al futuro poteva forse il presente contenere un nuovo voto di avvenire? Era come se lei dovesse scegliere la vita oppure la propria persona; scegliere la vita significava aver affidato le promesse al passato e allora chiudere, tirare i remi in barca e considerare il poi come un tempo che si sarebbe riempito di vuoto e noia. Decidere di scegliersi significava non sentire più il bisogno di essere notata da altro, ma semplicemente riconoscersi da sé, e questo avrebbe permesso al futuro di contenere ancora la promessa di felicità. Lei però non sapeva se sarebbe riuscita ad essere più forte della vita. Forse il suo destino era semplicemente quello di cantare la sconfitta umana, una voce tra tante. C’è eroismo nella rinuncia? Dove l’uomo gioca la propria umanità? Nell’accettare l’ineluttabilità del proprio destino segnato dal passato oppure nell’accettare quella forza interna che spinge ad andare contro la vita già vissuta con una visione di avvenire diverso? Dove sta’ la vera risposta da dare alla vita? Lei questo andava pensando….
Mio diletto
Ho ricevuto la vostra missiva, mio diletto, e non sapete con quale piacere ho gustato le vostre parole. Esse entrano nelle mie stanze nei modi sempre rocamboleschi coi quali ardite arrivare a me. Quasi voi vogliate lasciare al caso la consegna di ciò di cui mi scrivete. È per questo che mi siete caro, mio diletto, perché mai avete la pretesa che io riceva le vostre attenzioni. Trovo una tale libertà in questo da spingermi a pensare che voi non ricerchiate la mia compagnia per una qualche manchevolezza della vostra vita, ma che al contrario la passione che vi porta a frequentare la mia più profonda intimità sia espressione dell’abbondanza della vostra vita. Avete scritto che volete un mio pensiero sull’idea che io completi voi e voi completiate me. Nulla di più sbagliato, mio diletto. Sì, lo so che da Platone in poi questo è divenuto il pensiero comune, ma no! Sia io che voi sappiamo la falsità di questa affermazione, solo che al mio cuore ciò è palese, mentre al vostro, mio diletto, ancora no. Lo è però al vostro corpo che mi ama nella coscienza di sapere sé essere completo. Vi prego, mio diletto, lasciate che anche la vostra mente veda la libertà che consegue dall’amarmi sapendo di essere voi stesso essere compiuto che in nulla abbisogna di me. Lasciate che la vostra mente possa godere di me come ne è capace il vostro corpo. Ammetto, mio diletto, che larga parte della vostra vita come della mia sia stata spesa nella ricerca della più profonda felicità, e non vi stimerei come vi stimo se non avessi percepito questa potente spinta in voi; il vostro viver ed il mio mi confermano che io e voi abbiamo incontrato in noi stessi i migliori compagni della nostra vita. La metà tagliata che tanto fa ricercare Platone nelle parole di Aristofane a uomini e donne, ognuno di noi stessi l’ha trovata in sé. Sì, mio diletto, io e voi siamo due esseri completi che si cercano per godere dell’altro senza pretendere di esserne completati. Io e voi non ne abbiamo di bisogno. La passione che ci infiamma i corpi porta all’estasi perché di nulla è carente, l’ardore delle nostre conversazioni ci spinge ogni giorno ad avvicinarci perché non richiede conferme. Io vi amo, mio diletto, e tremo per voi quando vi vedo invischiato in quel tipo di amore che ancora dipende dall’altro, ma ancora più temo per voi quando siete vittima di un amore del genere, ma amandovi io nella vostra completezza, appoggio lo sguardo su ciò che al momento vi sazia la vita e lo faccio mio perché vi voglio comodo quando raggiungete le mie stanze di edere adornate. Sappiate, mio diletto, che sempre io vi sarò compagna senza invadere la vostra vita con ciò che manca nella mia. Vi sarò compagna per ciò che esiste nella vostra. Io sono cosciente di aver già conquistato ogni singolo pezzo di me stessa donna ed anche ogni singolo pezzo, mancante, di me stessa uomo. Per questo io sono autonoma e in nulla dipendo da altri esseri umani. Aristofane ha ragione quando dice che trovata l’altra metà gemella si genera la specie cui si appartiene; ed io ho generato me donna, come voi, mio diletto, avete generato voi uomo.
Mai tra noi ci saranno i silenzi che nascono dal fastidio di comportamenti pretesi a completamento, ma nemmeno mai ci sarà tra noi la potente esaltazione che nasce nello scambiare richieste per attenzioni. No mio diletto tra noi ci sarà solo la passione dei corpi ed il proficuo dialogo di due menti brillanti. Condivideremo parte della nostra vita, così, nei modi che capiteranno, rocamboleschi o scontati a seconda dell’occasione, ma ognuno di noi avrà la libertà di vivere se stesso prima di vivere l’altro. Questo sarà sempre ciò che mi lega a voi ed è per questo che vi amo, mio diletto, e con voi amo ciò che riempie la vostra vita. Vi lascio, come al solito la chiave dell’uscio sotto al vaso in terracotta dalla forma di anfora. Usatela a vostro piacere.
San Gallo
Era la regina di San Gallo indietro indietro nella sua infanzia, non la principessa che è cosa da bambine belline, lei ne era il re al femminile. Ancora la donna ricorda le corse spensierate su al Dosso del Grillo per accompagnare passo a passo la calata mattutina del sole verso la sua collina. È così che assicurava la luce al popolo sbarbato, scortandola in regale processione, un passo lasciato nelle tenebre e l’altro fatto nel giorno appena spuntato. E le piaceva accompagnare quella linea in movimento perché era come stare a cavalcioni del creato. Si sentiva libera, lei sola all’alba nel mondo vuoto, metà buio e metà illuminato. A quei tempi i suoi genitori erano ancora padroni della sua capigliatura che infatti era corta, tagliata per essere e non certo per apparire, ma il mondo racchiuso in quella valle, là dove i condannati passavano l’ultima notte di vita, apparteneva solo a lei e alla sua spensieratezza con la quale creava avventure per la comunità bambina che passava l’estate tra la collina ed il boschetto. Ogni elemento della natura si trasformava ai suoi occhi in occasione. E così trascinava la masnada di ragazzini a combattere le guerre della fantasia tra le trincee della collina per arrivare a sera saturi di schermaglie e paci con le guance rosee di vita. Oppure trasformava le cime degli alberi in comodi letti ove il suo popolo bambino potesse riposare nascosto agli occhi e ai pensieri dei genitori. Oppure ancora rendeva i grandi massi casse del supermercato ed i fili d’erba monete affinchè la sua parte femmina potesse divertirsi. Le spedizioni all’Adda, terra vietata, erano poi una prova richiesta a quel popolo bambino, così come le incursioni al cimitero per resistere, soli, alla vista delle fiammelle e poi tornare vincenti e cresciuti dagli altri. Tre gradini lei aveva per trono ai piedi della collina; lì decideva le sorti della giornata e lì chiudeva le serate d’estate; prima ad arrivare, ultima ad andare. Sì era il suo mondo e di null’altro aveva bisogno perché quello era un universo di meraviglie per i suoi occhi ancora bambini. Poi crebbe.
La poppa
Ascoltare le onde richiede un occhio fino, un sedere sensibile e una mano d’artista. Le orecchie non servono a nulla e possono riposare davanti alle acque increspate a meno che non si vogliano usare le onde per suscitare in se stessi il pensiero romantico di un ricordo che ancora punge e si rifiuta di passare all’oblio, ma questa e’ un’altra storia. Occhio, sedere e mano hanno invece il potere di tenerti legato al momento e di farti scivolare nel profondo piacere di sentire quella piccola accelerata in discesa dall’onda. Non e’ possibile non amare questo istante di vita fatto di vento in poppa e di immenso nella mente. Allora guardi le spalle dell’ amico impegnato alle scotte e pensi che forse anche lui e’ entrato in quell’attimo di felicità profonda lavorando di braccia. Non glielo chiedi perché’ momenti così non hanno spazi per le parole. Essi ti impongono solo di tornare a guardare il movimento delle onde, sentire l’attimo in cui il sedere si alza e rispondere con un leggero movimento di mano che va verso e contro le onde. Onda dopo onda a sentire la bellezza della vita. Questo e’ il ritmo della completezza. Questo e’ il ritmo della felicità. Basta una discesa sotto spi!