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L’Amazzone

Lei era un Amazzone, ma non del tipo vecchio; non era una donna guerriera senza un seno, o con un grande seno, a seconda del significato che si vuole dare alla A. Lei era un’amazzone moderna, nata per colmare di significato il vaso vuoto del gender, categorizzazione dell’umana natura di recente invenzione, scritta a tavolino per sostituire definitivamente l’uomo proletario, quello maschio puzzone e guerriero, con una serie di declinazioni pseudo-femminili più mansuete e rassicuranti per l’establishment, ma devastanti nei confronti della essere umano.  Mentre l’uomo moderno decideva se soccombere a questo destino tracciato oppure mostrare gli attributi e restituire all’umanità e alla civiltà il valore del maschio, lei si era presa per decisione uno dei posti disponibili nel grande paniere del gender. Lo aveva fatto anche per una secondo motivo molto più frivolo: era stufa di dividere i bagni pubblici con la categoria handicap e finire con il farsela nei pantaloni, a causa del wc troppo alto, ogni volta che le scappava pipì e non riusciva a trattenerla fino al bagno di casa. Quindi forse il suo fine ultimo, in fondo, era solo ottenere un gabinetto pubblico dedicato. Quello che è certo è che lei non scelse di divenire un’amazzone, semplicemente le capitò. Lei che adorava il suo essere donna, con quel corpo imperfetto, ma armonioso, e quei sensi oltremodo sensibili, ma altrettanto coriacei, si trovò trasformata in Amazzone. Dovete sapere che prodotto dell’età moderna, oltre al gender e al politically correct è anche il cancro; ma mentre i primi due sono schemi culturali, il terzo è uno stato umano. I primi due sono imposti da fuori, c’è, per ora, ancora un margine di scelta; il terzo avviene, te lo becchi e ci fai i conti senza scelta. Per diventare Amazzone deve venirti un cancro al seno, non un cancrino, che spaventa da morire, ma lascia pochi segni; uno devastante, aggressivo ed esplosivo che impone le sue regole e non gliene frega niente se sei spaventata oppure no. Il cancro al seno sta al divenire Amazzone oggi, come i riti di iniziazione stavano al divenire Uomo tempo fa. È un’iniziazione fatta di avvenimenti sequenziali ai quali devi sopravvivere. Primo: la perdita momentanea dei simboli esterni del tuo essere donna con la caduta dei capelli e l’annerimento delle unghie; serve a destabilizzare tutte le tue sicurezze in relazione a chi sei tu rispetto agli altri. Secondo: la perdita momentanea della dignità del vivere con la disintegrazione fisica che ti annienta sdraiata su un letto; serve a tarare la tua forza di volontà e la tua voglia di vita. Terzo: la perdita definitiva del tuo intimo potenziale di madre con la distruzione del ciclo mestruale; serve ad insegnarti l’accettazione incondizionata dell’imprevisto. Quarto: la perdita definitiva di parte della tua femminilità esteriore con il sacrificio alla vita della mammella, se sei fortunata, delle mammelle, se non lo sei; serve a trasformarti in qualcosa di fisicamente diverso.  Poi però, se passi attraverso a tutto ciò senza perderti nel mondo nero della paura e della rinuncia che porta alla morte diventi, per merito, un’Amazzone e puoi chiedere a gran voce e per diritto, il tuo bagno pubblico dedicato, oltre che mettere la tua stanghettina nella lista gender sotto la voce: tipologia Amazzone. Quale delle due A descrive l’Amazzone moderna iniziata dal cancro? Decisamente non la privativa, ma la rafforzativa. Infatti le Amazzoni di oggi sono dotate di grandi seni primo perché la mutua passa anche la chirurgia estetica ricostruttiva e quindi perché no; secondo perché tale violenta iniziazione non può che presupporre uno stato di profonda trasformazione in senso rafforzativo; non a caso si parla di sopravvivenza a cinque anni, mica di guarigione. Non più, allora, le donne guerriere di un tempo, ma le donne donne donne di oggi; donne periodico se lo vogliamo esprimere in termini matematici. Così, a parte infinocchiare gli strateghi della nuova società occupando un posto destinato a creature più mansuete e gestibili, le Amazzoni vivono, prescelte, lo stato di “conclusione”, o meglio: “di conclusione sommata a tutti i suoi sinonimi come elencati nelle enciclopedie: compimento, deduzione logica, risultato, realizzazione, definizione ”. Vedono ogni declinazione della vita in modo diverso; di essa percepiscono l’aspetto unitario, quello che porta perfezione e bellezza. Un’Amazzone appena nata, magari ancora sdraiata nel letto di un ospedale, vede, per esempio, il mondo maschile che nel corso della sua vita di semplice donna le si è sviluppato attorno tornarle indietro nella sua forma più pura. Sta tutto lì davanti ai suoi occhi; imperfetto come il vivere lo ha reso, ma incontaminato come l’attimo che l’ha generato. Solo l’Amazzone è in grado di percepire, in un istante, la meravigliosa complessità e perfezione di quel mondo estraneo che per anni era parso più ostile che amico; quasi inferiore per capacità dimostrate.  In un istante lo tocca, unico e vario, e sente come ormai superato il suo essere discordante. In un attimo secondo è in grado di vedere risolta in sublime unità ogni particolare singolarità che è stata presente nella sua vita.   C’è l’amore paterno che come un’ombra si stende e protegge, sempre presente, incondizionatamente, un passo indietro, ma mai di spalle. C’è l’amore filiale, tremulo e spaventato, che ancora ha bisogno di vedere per rassicurarsi. C’è il matrimonio spezzato che mostra il vero significato della sua indissolubilità attraverso domande che pretendono per risposte liberatorie rassicurazioni. C’è l’uomo che ti ha guardato negli occhi in mille maniere e si siede silenzioso perché ormai le parole non servono più, c’è ancora l’uomo che sorprende se stesso per un legame che ha scoperto non legare; e c’è l’uomo che non parla parole pericolose, ma che ha scritto nel corpo ogni singola lettera del suo pensiero; c’è l’uomo piantato nel suo volere cui però scappa la curiosità per un poi che non lo annienti e c’è anche l’uomo che in preda al panico nero si aggrappa là dove può, ma non scorda chi sei. Ognuno declinato a suo modo dentro alla propria vita che da Amazzone si accarezza con amore sincero. Singoli tasselli di un mondo estraneo ed affascinante in grado di restituire agli occhi d’amazzone un mosaico di pure armonie che trasformano la carne maschia in euritmico tutto. Capita la ricchezza che questo universo ha portato al suo mondo, l’Amazzone si sporge un poco nel paniere del gender e occupa con il suo piede anche un’altra posizione, lo fa in modo nascosto per non farsi accorgere, ma è ben determinata a non farselo portare via fintanto che l’uomo come lei lo ha visto non verrà a pretenderlo per se medesimo.

Il ragazzo e l’uomo

Loro sono due uomini. Uno adulto, cotto a puntino; in quell’età in cui si è sbocciati al’entusiasmo dell’indipendenza, senza avere ancora vissuto abbastanza per sentirne la fatica. Un uomo da “enta”, insomma. L’altro un ragazzetto che non meno di un mese fa si è alzato la mattina urlando a sua madre: “mamma da ieri sono un teenager”, cosa vera! … in un corpo, per dimensioni, adulto. Così la loro la possiamo descrivere come un’amicizia tra un Enta e un Teen. Accadimento raro oggi dove la differenza di età è una barriera divisoria impenetrabile che cade solo intorno ai cinquant’anni. Il giovane uomo, ancora non brizzolato, è un isolano e lo si nota dalla sua parlata che è tonda e ridondante, proprio come si addice ai suoni quando sono abituati a schiantarsi contro un mostro di enormità quale è il mare e che, per non dissolversi, devono tornare indietro sui propri passi e così si caricano ancora di più di se stessi. Ma a differenza della sua parlata, lui è un uomo fatto di corridoi e ponti, aperto alla vita e proiettato verso gli altri esseri umani che accoglie con un profondo sorriso dalla barba rasata. Il ragazzetto, invece, è nato e cresciuto in una metropoli e ha speso la sua giovane vita a metà tra la terra di nessuno, quale è la sua città, e la terra consacrata dall’altra parte del mondo, la terra indiana, ove suole passare parte della sua estate; così lui già sa che un fulmine non è sempre pericoloso allo stesso modo. È un ragazzino madre munito, ma non padre munito in quanto figlio di quel tipo d’uomo che ama alla follia il sangue del suo sangue, ma gli è sempre impossibilitato, per qualche incredibile motivo, spendere la propria vita a fianco della ricchezza in dna nata dai propri spermatozoi. E’ un tipo d’uomo-prodotto di questa era, lo si sta scoprendo, ma ancora non lo si conosce bene per darne una descrizione scientifica; tempo fa comunque non esisteva. Il giovane adulto ed il teenager si sono incontrati sul terreno di una passione comune, anche se par l’adulto stava significando lavoro e per il teenager vacanza un poco stile parcheggio per un grave problema sorto in casa. Qualcosa, durante quella quotidiana frequenza, è scattato tra i due uomini e da sconosciuti si sono trasformati in … famiglia … lo chiamerei. Non posso, da donna, descrivere un sentimento maschile perché non sono in grado di provarlo e pertanto mi è vietato riprodurlo in parole, ma posso descrivere ciò che i miei occhi hanno visto e, tra quei due, hanno visto nascere un’attenzione rara, fatta di disponibilità, presenza, gentilezza, costanza, rispetto; l’adulto verso il ragazzo ed il ragazzo di ritorno all’adulto. E’ come se loro due si fossero notati tra molti e scelti per costruire qualcosa che tocca l’intimo del loro animo, ma che ancora stanno scoprendo. Per questo non mi è venuta altra parola che famiglia, perchè entrambe le relazioni possiedono lo stesso nocciolo fatto di mistero e concretezza. Ed è qui che mi incanta la loro storia; è nel vederli scoprire e costruire quel legame che si è creato per un caso destino che li ha visti entrambi in un luogo ed in un tempo contemporaneamente. Quello tra i due giovani è un legame che li lascia liberi di vivere la propria vita tanto diversa per età, ma che rimarrà una costante nel loro futuro comune di uomini. Come lo so? Perché è un legame che li ha segnati. L’adulto lo dimostra con infinite gentilezze verso il ragazzo. Lui è un adulto che c’è in mille modi nella vita del ragazzino, ed è un esserci fatto di concretezze palpabili. E’ un esserci che si spende nel mondo reale e non nel mondo delle parole o delle intenzioni.
Che meraviglia a guardarlo!
Il ragazzo lo dimostra da ragazzo. Per descrivervi la sua bellissima modalità, do un nome all’adulto, poniamo che si chiami Antonio, anche se questo è più un nome da “anta” che da “enta”, ma gli si addice per i richiami eroici del nome al valoroso condottiero dimenticato per le sue gesta dai suoi discendenti ed osannato per le medesime gesta dai suoi posteri. Orbene quando il ragazzo parla a sua madre del suo amico adulto non lo chiama semplicemente Antonio, ma lo appella sempre dicendo: “il mio Antonio”; quando ciò accade, la madre sa che dentro al quel “mio” non esiste traccia di possesso, ma che tale parola è la culla di ciò che tra loro è nato per quel caso destino che rende belle le vite umane; la madre sa anche che quel “mio”, urlato felice, è il contenitore amorevole di ciò che entrambi vorranno metterci in futuro; è uno spazio vuoto da riempire di vita; così, quando il ragazzo dice “ il mio Antonio”, alla madre sobbalza il cuore di felicità, per quella condizione rara regalata al proprio figlio.
Che meraviglia a guardarli!
So, perché li ho sentiti direttamente, che nessuno più in quella casa chiama l’adulto Antonio, perché per tutti è diventato “Il mio Antonio”. Questa è la famosa proprietà transitiva che esiste tra madri e figli.
Ma, da donna, io so anche che quella madre utilizza tali parole per onorare agli occhi del figlio quell’amicizia nata tra lui, teen, e l’uomo negli enta.
Perché vi ho raccontato questa storia? Perché è una storia normale.

Il nuovo Orco

È bella la vita perché a volte il tuo passo inciampa in quello di un orco. Il mio è appena incespicato in un orco da poco in città. Chissà se è un orco buono o un lancia sassi, ancora non saprei dire. Però è un orco simpatico per il guizzo della sua voce. Stavamo mangiando nespole all’ombra di un olmo quando di colpo mi ha urlato: “ ti ho vista”. Io mi sono quasi presa paura per come lo ha urlato; ma in realtà lui era solo entusiasta. Lui aveva ragione perchè io qualcosa avevo fatto! Ero entrata a farmi un giro dentro ai suoi occhi. Dovete sapere che è una caratteristica degli orchi sospendere il loro sguardo per farti entrare e poi tenerti imbrigliata un momento, giusto per darti piacere. Ma nessuno l’aveva mai fatto urlandomi all’orecchio t’ho visto. Mi ha fatto così tanto ridere che gli ho urlato indietro: “t’ho visto” perché in fondo anch’io lo avevo imbrigliato dentro al mio sguardo. Vero che è un orco simpatico? Ma c’è dell’altro. Lui fa una cosa che gli altri orchi non fanno. Dovete sapere che gli orchi sono creature semplici, il loro cervello è molto lineare ed immediato e così pure loro. Ma quest’orco nuovo invece è più complicato. Lui gioca a nascondersi. Non so se si occulta da tutti, da sé o solo da me; però lo fa. Quando ti parla e ti dice qualcosa poi lo commenta per cambiare di qualche grado la sua posizione e mischiare i significati così poi tu vai in confusione e lui ride. Ma questo è niente; il bello è quando agisce. Lui è capace di muoversi nei tuoi confronti chiudendo le azioni dentro a una scatola dura e un poco fredda così quando le sue opere arrivano a te nulla di lui è riconoscibile se non la scatola fredda. E’ un orco contenitore. Lui tiene se stesso lontano. Se tu glielo fai notare ti dice: “così tu gli dai il significato che vuoi”. Questa è una cosa bellissima, perché è una grande libertà poter appioppare il senso che vuoi alle azioni degli altri, ma a me manca tanto sapere il suo senso e le sue sensazioni. Mi piacerebbe poter infilare le mani in quel posto caldo e stimolante che l’orco protegge così gelosamente. L’orco non sa che noi umani ci nutriamo di quelle calde e morbide onde che tornano indietro dal profondo dell’altro quando qualcosa di noi lo colpisce. È un poco come la risacca del mare. L’onda colpisce la terra, a volte con forza, a volte con gentilezza, e la terra è grata al mare di quest’onda che è sempre unica e nuova, allora il mondo secco ritorna all’oceano un poco di sé; lo fa consegnando al movimento del mare qualche granello strappato a se stesso. Questi granelli tornati all’oceano danno il senso profondo alle acque perché giacendo poi nei fondali diventano il limite tra terra e oceano. Ma tornando a noi, dopo aver passato il pomeriggio con lui a giocare a nascondino e poi a mangiar nespole sotto al grande olmo mi si è ritorto lo stomaco per il buonissimo sapore di nespole e orco assieme. Credo di aver fatto indigestione di nespole. Lui invece non è ne stanco ne sazio e sta continuando a mangiarle. L’ho lasciato così, intento a digerire tutti quei frutti arancioni intanto che cercava qualcosa dentro a una tasca. Lui ha lasciato dentro ai miei occhi il suo odore; è un buon sapore perché sa di nuovo. Se lo dovessi comparare a qualcosa direi che sa di torta al rabarbaro; un poco aspra appena la mordi, ma calda e filamentosa quando la ingoi.

L’Orco buono

C’è un orco buono di cui non vi ho mai parlato; allora oggi lo faccio. Lui è un orco amico, di quelli che ce ne è pochi in una vita, ma anche in due o tre! Era una giornata assolata, non molto diversa da tante altre se non per il fatto che, guardando il lago, non si vedevano increspature di acqua. Io avevo un doppio appuntamento bagnato per quella coincidenza di eventi che accade con la stessa frequenza con cui Halley Comet ci viene ogni tanto a trovare. Il primo appuntamento era con l’orco buono. E’ un orco diverso dagli altri, lui non lancia le pietre, non ti pesta i piedi né ti tira i capelli anche se è un orco a tutti gli effetti. Volevamo andare a farci un giro su quello specchio piatto. Decidemmo di uscire presto per permettermi di uscire poi ancora. Così scivolammo sul lago aiutati da uno strano vento che a volte si diverte a far ruzzolare tutto ciò che soffiando incontra. Dovete sapere che l’orco buono è un gran chiacchierone ed essendo un grande amico fa mille domande e risponde ad altrettante. Eravamo così intenti a chiacchierare che poco badavamo al mezzo che io stavo portando distratta. Ma il vento si è fatto invidioso dei nostri dialoghi ed ha voluto mettersi in mezzo. Si è messo a soffiare spostandosi in continuazione così che io per seguirlo ho dato la poppa a tutti e quattro i punti cardinali e pure a quelli di mezzo. Così io e l’orco abbiamo smesso di parlare del più e del meno per dare attenzione al vento invidioso. Siccome quel vento è un vecchio amico, e sia io che l’orco sappiamo che quando vuole attenzioni le ottiene; per fargli cosa gradita, lo abbiamo reso il centro delle nostre conversazioni. Ora il vento è narciso e si è così tanto gonfiato ascoltando noi due parlare di lui che ha deciso di fare la sua entrata maestosa e pure maestrale. Non era un ventone, ma un vento dal cervello fino, di quelli che richiedono attenzione, non forza. Quando il vento narciso decide di entrare lo fa per sbuffi e raffiche più o meno potenti, non tutto d’un pezzo. È il suo modo di tenere vivo il dialogo con i suoi amici orchi e le sue amiche bionde.

Quando lui raffica, tu lo devi stringere in un abbraccio più forte come si fa con chi è un poco arrabbiato e vuole solo attenzioni. Così io l’ho stretto più forte che ho potuto. Ma il lago finiva e noi dovevamo girare; allora decidemmo di farlo tra un abbraccio e l’altro perché io non sono tanto capace di abbracciare e virare. Ma quel vento esigente non mi lasciava poi tanto tempo, così dovetti virare veloce e senza lascare la mia amica volante, perché è cicciona e a me dura e mi sarebbe occorso troppo tempo per farlo. Per questo il mio amico orco mi ha dato il sedere e si è messo ad armeggiare alla volante, mentre io continuavo ad abbracciare quel vento narciso. Forse al vento non è piaciuto che l’orco si distrasse in altro, oppure ha semplicemente voluto giocare più duro; fatto è che di colpo io sento un baccano di cose che rotolano, e vedo tutto che gira. Pure la riva del lago si è messa in piedi. Dallo spavento mi appappagallo attaccata alla barra e urlo: “aiuto Orco che faccio?” Lui non si muove, con il suo sederone che mi guarda ancora in faccia continua a fare ciò che stava facendo; ma, calmo come un mare piatto, dal suo profondo mi dice: “Gestiscilo” e più nulla pronuncia. Così io penso: “ti stringo più forte per farti passare l’arrabbiatura”. Il gentile pensiero, però, non serve a nulla, il vento ancora ci tiene in quella scomoda posizione. Allora non mi resta che lasciar fare, finchè al vento non passa lo sbuffo e torna sereno e teso. Ripreso l’assetto e soprattutto la centratura io penso al fattaccio e mi sorge un dubbio. Allora io chiedo: “Orco, ma saremo mica finiti in straorza?” la faccia dell’orco si è accesa in un grande sorriso e mi ha risposto:”se non ricordo male, l’avevi chiesta e io te l’ho regalata”. Così io adesso so cosa può accadere se abbracci il vento, ma a lui non basta, grazie a un amico orco che esaudisce ogni mio desiderio. Ora, se siete curiosi di sapere che cosa sia successo al vento una volta fatta la sua entrata sbuffata ve lo dico immediatamente: Lui si è tranquillizzato e mi ha portato giusta giusta al mio secondo appuntamento bagnato. Questa volta ad aspettarmi di orchi ce ne erano quattro.

L’Orco e la chevrolet

Mi capitò, sognando, di essere di nuovo in compagnia dell’orco che inciampando in se stesso mi ruzzolò addosso; quello che poi incominciò a tirar sassi obbligandomi a scansarmi per non morire, or bene questa creatura non certo ordinaria si prese la mia Chevrolet.
Ridendo mi disse di raggiungerlo fuori città; così avrei potuto passare del tempo con lui e recuperare quanto era mio. Ma il luogo era lontano ed io ero priva di un mezzo. Sapevo che avrei dovuto affrontare un viaggio. Allora guardai giù dal balcone di casa e vidi che un autobus era in partenza. Chiesi dove fosse diretto, ma la sua meta non era la mia. Non ci salii per non allontanarmi ancora di più da quell’orco pericoloso, ma in fondo a me caro. Come, però, succede nei sogni pur non salendo sul mezzo, io c’ero. Il vecchio autobus si mise in marcia ed il suo grasso autista si concentrò sulla strada. Doveva aver piovuto perché più che una strada pareva un fiume. L’acqua saliva, saliva, saliva fintanto che non fummo completamente immersi nel buio freddo. Io pensavo che quel grassone tutti li avrebbe affogati; ma all’apparenza ero l’unica a preoccuparsi. L’autobus scendeva e nessuno gridava. Poi d’un tratto i motori zittirono ed il grassone parlò: “ se non si riaccende il maledetto, questa volta siam fritti”. Dal nulla spuntò il suo socio. Un uomo mingherlo e triste che pareva fatto di carta. Lui armeggiò assieme al grassone, ma quel vecchio autobus continuava imperterrito la sua silenziosa discesa nel buio bagnato. Poi, come d’incanto, atterrò sul fondo del mare e come le gomme toccarono terra il motore da solo tornò a funzionare. Il grassone ed il mingherlo si rilassarono. Io pensavo tra me: “Qui muoiono tutti, non appena finisce l’ossigenò.” Girandomi vidi che i passeggeri erano tutti piccoli bimbi. Tantissimi popi che in gita parevano andare. Erano chiassosi e felici. E soprattutto non si curavano di percorrere una strada in fondo al mare.
Ma il grassone ed il mingherlo sapevano cosa facevano. Non erano nuovi a quel viaggio. Questo io l’avevo capito. Il paesaggio sotto a quel mare era un paesaggio di guerra. C’erano carcasse ovunque ed il silenzio nascondeva pericolo. Io pregai l’autobus di non fermarsi, ma non fu così; l’autobus si fermò ed il suo prezioso carico scese a sgranchirsi le gambe. I bimbi respiravano in acqua ed anch’io respiravo. L’autista ed il suo socio non badavano ai piccoli ed io ero in pena per paura di dimenticarne qualcuno in quel luogo ambiguo. Poi ripartimmo e di nuovo ci fermammo. Questa volta fu l’odore intenso a stupirmi. Quello era un odore che addormentava e poi trasformava in creature mostruose. Io riacchiappai ogni singolo bimbo prima che respirasse quell’aria malsana e prima che il grassone ripartisse senza preoccuparsi di nulla. Passando vedevo quel paesaggio fatto di ruderi e di creature stranissime sperando che l’autobus non più si fermasse. Pensavo anche all’orco senza capire perché avesse voluto la mia Chevrolet e mi avesse obbligato a quel viaggio raro. I bimbi eran per ora salvi, seduti tranquilli ai loro posti e l’autobus mai più si fermò. Il viaggio terminò alla stazione dei treni. Il mare come era arrivato era svanito. Il mare, ora sapevo, era semplicemente una scorciatoia. Lì un treno avrebbe dovuto portare me ed i bimbi dall’orco, ma non c’era tempo perché il treno arrivava. Correndo attraversammo i binari dove qualcuno per primo era corso a fermare il treno. Ma arrivò qualcun altro sull’altro lato urlando che avevamo sbagliato perché le porte di là si sarebbero aperte. Non credo presi quel treno; non so cosa successe ai bambini e, di sicuro, non arrivai dall’orco. Pare non mi sia dato di passare del tempo con lui e recuperare la Chevrolet!

Di nuovo Orchi

Era molto caldo ed il mare mormoreggiava tranquillo quando mi capitò di rincontrare l’orco che sapeva suonare; quello in cui mancava armonia ma era forte la dipendenza quando l’aria parlava di gioventù, vi ricordate ?
Avevo con me alcuni datteri colti da poco, ed io so la passione degli orchi per questi frutti, ma sapevo anche, perché lo avevo sentito, che qualcosa in lui era storto … allora, spinta da un senso di simpatia perché, sì è vero mi pestò un piede, ma per farlo ebbe il coraggio di avvicinarmisi fino a toccarmi, allora, dicevo, gli chiesi se voleva dei datteri.
Era stupito, ma in fondo nemmeno molto; rispose grazie, lanciò un dattero nella sua bocca e mi raccontò. Parlava come solo gli orchi san fare, ma io ascoltavo distrattamente le sue parole perché, per altre vie, quell’orco schiacciato mi aveva catturato facendomi un regalo inaspettato.
Nascosta tra le espressioni del suo volto c’era una cosa che mi apparteneva da anni, ma che gli avevo lasciato, non so neppur io perché. Non l’aveva sgualcita, ma nemmeno se ne era preso particolarmente cura, essa era rimasta semplicemente lì. Appiccicata a lui era rimasta la parte grande del mio cuore, quella capace di cambiare la forma alle cose. Essa era bella, viva e splendente e lui me la stava restituendo, completamente ignaro di ciò che accadeva tra gli spazi lasciati muti dalle sue parole, tutto preso com’era dal suo discorso.
È così che ho capito cosa avevano gli orchi che a me mancava! Ed è così che ciò che era mio è tornato a me!
Or succede che poco dopo inciampai nuovamente nell’orco che pensava di essere il centro del mondo, e che mi pestò l’altro piede; ormai però non mi mancava più il pezzo di cuore dimenticato e credo che lui se ne accorse perché piantato nel centro del suo mondo guardò verso di me e mi sorrise … non aveva più paura che io potessi respingere la forma del suo universo, sapeva che il mio cuore completo poteva creare, disfare e contenere qualsiasi forma venisse dagli altri o da me.
Così ci parlammo, solo parlammo.
E siccome non c’è due senza tre mi capitò di passare del tempo con l’orco che mi ruzzolò addosso inciampando in se stesso. Ricordate anche lui? Quello un poco diverso dagli altri?
Lui continua ad inciampare, ed inciampando lancia con i piedi tutti i sassi che incontra, ho provato a creare per lui tante forme col cuore, tutte quelle che la mia fantasia riuscisse a pensare, ma pare che nessuna lo aggradi e siccome fa male essere colpita dai sassi e la forma rotonda delle ceste manco mi piace poi tanto, l’ho salutato col sorriso sul volto, ma dentro al mio cuore gli ho detto addio fintantoché non la smette coi sassi.
Queste le sorti dei miei tra amici orchi, uno ora parla senza riuscire più a smettere, l’altro continua a sentirsi il centro del mondo mentre il terzo ha preso il vizio di lanciare sassi coi piedi.
Son belli gli orchi, perché quando meno te l’aspetti cambiano forma alle cose così solo per farti gli scherzi. Ma ora io sono in grado di star loro affianco, perché sbadatamente uno di loro mi ha restituito ciò che gli avevo lasciato ed io posso così contenere tutte le forme che vogliono assumere …. anche quella del niente, pur mantenendo intatto in me il bello del mio sentire.

Orchi

Vivono nei Nuraghe creature strane, sono grosse e maldestre e portano in fondo agli occhi un’espressione fissa che racconta di domande che non hanno ricevuto risposta.
Vivono soli, ma non disdegnano la compagnia di altri a loro simili.
Sono creature a noi incomprensibili e ci fanno pure un poco paura perché non ci assomigliano in nulla.
Loro ci guardano increduli quando noi lasciamo che conoscano il fluire dei nostri pensieri, sbarrano gli occhi forse perché vengono catapultati in ritmi e direzioni a loro così estranee, infatti sono creature lineari, non abituate a tutti quei pensieri incrociati.
Ci è sconosciuto il nome che loro si danno, ma tra noi, noi li chiamiamo orchi.
Quando gli orchi sono nei loro Nuraghe la vita scorre tranquilla; hanno un grosso letto, un grosso fuoco, un grosso vestito, un grosso piatto; se si incontrano tra loro il fuoco raddoppia, così i vestiti ed i piatti. Non hanno bisogno di molto di più. Le loro giornate vengono spese affaccendati in ciò che per loro è lo scopo di vita: trovare il modo di riempire quei piatti. Non hanno molti altri bisogni e, di certo, il nostro mondo non fa parte del loro.
Quando gli orchi escono dai Nuraghe per cavalcare vie sconosciute si increspano perché è loro impossibile stare in luoghi che non gli appartengono….è difficile per creature lineari incastrare, nei loro, nuovi orizzonti.
Or accade che a volte i nostri percorsi si incrocino proprio in quegli orizzonti. Quello che noi vediamo di loro sono le increspature nate dall’essere in luoghi estranei.
Ho conosciuto un orco che sapeva suonare, ma non c’era armonia nel suo cuore. Una cosa vi era depositata: la dipendenza da ciò che era stato. Eravamo in un luogo che parlava di gioventù, lui si increspò e nel girare le spalle a ciò che non gli era noto mi pestò un piede.
Ogni tanto ancora oggi io zoppico.
Ho conosciuto un altro orco che pensava di essere il centro del mondo, or quando scese la sera ed egli vide la Luna si spaventò per quel mondo estraneo che spostava il centro dell’universo; allora l’orco cercò di allargarsi più che poté per tornare al centro di tutto e nel farlo mi pestò l’altro piede, lo fece con così tanto peso che io ancora oggi zoppico.
Un ultimo orco ho conosciuto, era un poco diverso dagli altri che per un attimo ho quasi pensato che riuscisse a capire questo mondo fatato, ma un giorno inciampò su se stesso, inciampando mi ruzzolò addosso…schiacciandomi tutta….così oggi io zoppico con tutti e due i piedi e a volte il respiro esce strano perché sono stata schiacciata; ma nonostante i segni che porto addosso adoro trovarmi tra i passi degli orchi perché, se ti tieni a distanza di sicurezza dalle zone di increspatura, sono creature gioiose anche se goffe, tenere anche se a volte maldestre…. loro hanno qualcosa che a me manca anche se ancora non ho ben capito cos’è.
Allora io aspetto e mi siedo felice alla loro mensa quando mi invitano…mangiamo datteri assieme, loro ne vanno ghiotti.