l’arrivo della morte
Come candela foca vo’ spegnendomi di fiamma irsuta.
Nulla io posso al venticello teso che di mi vita spira il solar calore.
Immobile ancor viva assisto allo spegner mio ed all’altrui fiorire.
Come candela foca vo’ spegnendomi di fiamma irsuta.
Nulla io posso al venticello teso che di mi vita spira il solar calore.
Immobile ancor viva assisto allo spegner mio ed all’altrui fiorire.
Era una giornata di sole e l’aria aveva il profumo della tranquillità. Pareva come stare dentro a una panetteria appena dopo la cottura del pane. Le loro chiacchiere serene saturavano di felicità quella strada asfaltata, troppo grossa per essere di alta montagna.
Loro erano lui, un ragazzo magro dall’ aspetto corvino; la sua fidanzata straniera e lei l’amica incontrata per caso molti anni prima, che aveva conquistato le profondità del suo cuore senza però provocare in lui l’amore. Stavano andando a fare una scampagnata fino su al ristoro; quello bianco con le finestre di legno e gli scuri rossi sulla curva con la cascata.
Erano così giovani!
La’ si fermarono a mangiare un panino con una birra bionda ciascuno, seduti all’aperto per respirare tutta quell’aria serena senza capire che loro ne erano la causa. Dopo il caffè, le due ragazze salirono in macchina per arrivare ancora più su sulla cima della montagna; là dove crescevano quei fiorellini blu grembiule delle elementari che tanto adoravano. Lui semplicemente seduto le guardava allontanarsi assieme. La straniera si mise alla guida mentre l’amica le si sedeva a fianco. Acceso il motore, l’auto partì. Chiacchieravano amabilmente senza badare troppo alla strada, quando l’occhio dell’amica cascò sul dirupo di fianco alla curva che stava arrivavano. Lei pensò che la macchina fosse troppo veloce; si chiese, anche, se la straniera sapesse cosa stava facendo, ma non fece in tempo a finire il pensiero che l’auto imboccò la curva con una traiettoria troppo larga e troppo veloce. Fu un attimo e furono nel vuoto. Era un dirupo profondissimo, guardando sotto capirono che non avevano scampo. Quel lungo volo le avrebbe uccise. Precipitarono coscienti della loro morte. Poi fu il nulla.
Quando tornò in sé stava camminando a fianco all’amico; si sentiva molto stordita. Rammentava il dirupo, la caduta e non si capacitava come potesse ora semplicemente camminare al fianco di lui. Lo guardò. Era triste; il suo sguardo aveva perso la luce; era come se fosse sul punto di dirle qualcosa che, però, gli stava costando uno sforzo infinito e lo invecchiava.
Lei conosceva a fondo l’amico e, in quello sguardo, tutto le fu chiaro. Allungò una mano verso di lui, gli sorrise e gli disse: “Sono morta vero?” lui non alzò gli occhi, rispose semplicemente: “Si’”. Continuarono a camminare affiancati. Aveva ancora un domanda da fare. “E’ morta anche lei?” “ No si è incredibilmente salvata…” Lui si girò verso di lei con il viso stravolto dal dolore, si abbracciarono forte e più che una stretta quello fu un avvinghiarsi l’uno all’altra per non lasciarsi andare. Senza pronunciare parola lei gli disse: “Sarò sempre con te” e lui a lei: “Non ti dimenticherò mai.” Poi l’aria tra loro si ispessì, i loro mondi si separarono, i due amici si persero.
Lui sposò la fidanzata straniera e costruì per lei una grande fazenda. Gli anni passavano e lui ogni mattina portava alla moglie dei fiori freschi e con i fiori le regalava sorrisi e abbracci ed il suo cuore felice. Spesso faceva per lei il buffone con quei fiori in mano. Ma il sorriso della moglie si era perso nel tempo ed ora non gioiva più dell’amore di quell’uomo maturo che aveva avuto tanto successo. Voleva da lui infinite premure, ma non riusciva a vedere quelle che quotidianamente le dava e così non ricambiava mai con una gentilezza. Pretendeva continua attenzione ai suoi discorsi colorati di superficialità. Il marito si annoiava a quelle mille parole, ma, per non dispiacerle, obbligava i suoi sottoposti ad ascoltarla al suo posto e rispondere con interesse a quelle parole vuote mentre lui faceva altro. L’amica, al di là dell’aria spessa, vedeva lo sforzo d’amore di lui e la grande infelicità di lei mentre la loro vita passava. Vedere respinto l’amore di lui in quel modo le procurava profondo dolore come se un pugnale le stesse aprendo il cuore. Un giorno, esausta da tanto dolore, tentò per lui tutto ciò che poteva, attraversò l’aria spessa ed andò a parlare con lei. Le chiese perché non riusciva a vedere il profondo sentimento di lui. Perché aveva preso a trattarlo a quel modo. Per tutta risposta la donna non più giovane tirò fuori una vecchia ciotola tutta sbiadita che una volta era stata colore del cielo di notte. Lei guardò quell’oggetto consumato dal tempo e le parve di riconoscerlo; in qualche modo le era familiare. “E’ tuo; glielo hai regalato tu. Non lo vuole buttare ed e’ con noi da sempre”. Disse la moglie tra forti singhiozzi. “Ma è una ciotola per far bere il cane, non ha valore! Perché è così importante che lui la butti?” le chiese lei. “Lui non ti ha mai dimenticata e ti porta nel suo profondo”. L’amica questo lo sapeva, lo aveva sempre sentito. Allora le chiese di nuovo:“Perché non riesci a ricomprendere in te l’interezza del suo cuore? Non puoi accarezzare anche quella parte di lui che mi tiene per mano?” La donna straniera non rispose, ma per tutta risposta iniziò ad urlare isterica.
No, non poteva farlo!
L’amico, sentite le urla della moglie, corse irrompendo nella casa spaventato. “Che c’è, che succede?” erano anni che lei non si trovava così vicino a lui. Infastidita e spaventata da quella donna ormai estranea corse tra le braccia di lui e lo strinse forte. lo fece senza pensare, un istinto. Lui sentì l’aria cambiare spessore. Apri le braccia lunghe distese e, frastornato, disse guardandosi in giu’: “Ma che mi succede?” Poi capì. Chiuse le braccia a contenere quell’aria ispessita, abbassò lo sguardo e con un sorriso a metà tra lo stupito ed il felice chiese: “ Sei tu, non è vero?” “Sì” lei rispose. Lui allora chiudendosi a cerchio più stretto: “Io ti ho portato sempre con me”.
Si tennero stretti, ognuno sul limitare del proprio mondo, senza più paura che quell’abbraccio potesse finire.
Era passato un anno ormai dal giorno in cui due parole, dapprima appena bisbigliate dentro di sé, poi timidamente sussurrate ed infine urlate al cielo avevano cambiato la vita a quella generazione sfortunata cui lui apparteneva. “E’ finita…” “E’ finita?” “E’ finita!” Quel canto universale ebbe il potere di mondare il suo corpo dell’adrenalina, da anni unico sussidio alla sua sopravvivenza in quel mondo di morte. Lui, uomo fuso alla trincea, finalmente si sentì libero, libero di non dover resistere. Si guardò intorno in quei luoghi che non riconosceva perché così ostili alla vita e, per la prima volta, si permise di cercare i segni dell’autunno, la natura al posto della forza nemica. Non era facile lasciarsi andare alla tranquillità, l’abitudine era altra. I giorni passarono e la trincea si allontanò. Quello sguardo dato alla terra tra buchi e i fili spinati, lasciò il posto a un’improvvisa voglia di vivere. Tutto ora era amico, tutto parlava di futuro. Là al freddo del fronte non c’era tempo per distrarsi con pensieri di vita, c’erano solo i compagni, carne pronta da macello come lui; ma ora, ora tutto era cambiato e, nonostante l’autunno, il mondo era in fiore ai suoi occhi. Tornò persino ad appoggiare lo sguardo su una ragazza, così solo per avere in cambio un sorriso. Lui la guardò, lei rispose agli occhi di lui e, per la prima volta in molti anni, nessuno dei due chiese all’altro un poco di vita per poter sopravvivere; furono liberi di potersi semplicemente sorridere e si sorrisero a lungo. La vita ricominciava, lentamente, ma ricominciava. Ora a distanza di un anno, il fermento dei primi tempi aveva lasciato il posto ad altro, perché non si poteva andare avanti ignorando ciò che gli occhi avevano visto ed il cuore provato. Era stato tanto vicino a morte e dolore da neutralizzare ogni angoscia; lui conosceva la paura così bene da averla resa innocua. Aveva anche dovuto neutralizzare pietà e rimorso. Ogni atto della vita passata era avvenuto più e più volte e questo bastava a dargli il rango di umano. Lui, oggi, era un Uomo che conosceva tutto perché aveva vissuto gli estremi. Sapeva tutto perché aveva dovuto staccare l’atto dal giudizio e questo lo aveva reso molto simile a un dio. Lui questo lo percepiva; così erano giorni ormai che andava pensando a quando, da bambino, aveva chiesto alla sua maestra delle elementari, una suora sincera, di quelle che amano onestamente e che pertanto la dottrina non aveva indurito, cosa sarebbe successo se lui fosse mai riuscito a vedere Dio. Lei gli rispose con quel suo dolce sorriso che sarebbe semplicemente morto perché una volta conosciuto Dio non ci sarebbe più stato spazio per nulla. La vita si esauriva in Dio. Non in realtà lei disse: “ La vita, conosciuto Dio, diventata Dio Ella stessa.” Queste parole gli martellavano il cervello perché, oggi, lui le riconosceva vere. Era stata la guerra a mostrarglielo. Lui si era accorto di aver consumato nel tempo di pochi anni ogni tipo di esperienza, forzato dagli eventi era entrato nei più reconditi anfratti dell’essere umano e ne era uscito vivo con un impressionante bagaglio di vita; non era impazzito e nemmeno si era lasciato andare; era cresciuto a dismisura tanto da eguagliare Dio. Andava così pensando cosa potesse ormai offrirgli la vita; stava forse sperimentando la morte annunciata dal sorriso della sua maestra suora perché lui si era alzato in piedi ed aveva guardato Dio dritto negli occhi? A portarlo a cospetto dell’essere supremo erano state le persone morte, uccise dalla sua baionetta; era stata la notte passata a fianco del cadavere del suo migliore amico, irrigidito dal freddo e dall’assenza di vita che però lo aveva comunque scaldato in quelle ultime ore assieme; erano stati gli occhi terrorizzati della ragazza tenuta prigioniera così a lungo. Era forse questa la morte descritta dalla sua maestra? Il vuoto creato dal troppo, che dopo aver portato pienezza passava oltre e diventava qualcosa che non apparteneva all’umano? È così che la vita diventa Dio Ella stessa? Questo lui andava pensando a un anno dall’ “E’ finita!” e in quel momento la sua vita era diventata piatta perché avendo provato l’estremo ed il suo opposto, ora non sapeva più cosa fare di se stesso. Al di là di Dio non c’era pienezza, c’era il nulla da abitare, e la sua natura umana si rivoltava al vuoto perché era destinata all’esperienza.
Ormai quei due corpi erano solo l’impronta di cio’ che il passato era stato, ma erano me. Si stavano guardando fissi, occhio nell’occhio, per cercare una traccia di loro. Ora ricordano: ha le pareti fatte di amore e passione…che fortuna la nostra, pensano, e riprendono ad amarsi del tenero amore di vecchiaia. Io serbavo nel cuore la vera storia, quella fatta di odio, disperazione e separazione, ci ero cresciuta dentro, ma tacqui, avevano dimenticato. Per la prima volta mi nutrivo del loro amore reciproco. Decisi di dimenticare l’intera vita e tenerli nel cuore cosi’: amanti.