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Vecchiaia

Regalami una ruga a spegnere i miei sogni.
Vorrei invecchiare come nonna, la pelle con la vita.
Ma io non mi scalfisco mentre l’ora passa.
Sto ferma alla stazione quando il tempo dell’attesa è consumato.
M’adagio nell’ora delle dolci passeggiate.
Dov’è sei vita che si incarna?
Io passo e poi ripasso, ma tu non mi accarezzi e nemmeno mi strapazzi.
Paro come pendola esaurita.
M’accomodo al banchetto del mio seme, delizia che non sazia.
Sono affamata.
Tu sai.
Regalami una ruga affinché io possa spegnere i miei sogni.

Maschi puntata 3 – Lezioni di storia

Capitava che quell’immagine inchiodata nella sua memoria tornasse a trafiggerla lasciandola senza respiro e senza possibilità di cambiamento. Era un volto sul quale si erano posati i suoi occhi una mattina di tanti anni prima quando la vita stava sbocciando e tutto era ancora da scoprire e da vivere. Non ricordava perché Lui si fosse girato, sapeva solo che si era girato e le aveva parlato. Sapeva anche che per anni Lui aveva continuato a sederle accanto e a parlarle accarezzandola con gli occhi e con i suoi sorrisi. Erano diventati amici, ognuno con la propria vita che però scompariva quando, durante quelle lezioni di Storia i loro corpi si sfioravano, forse con intenzione o forse no, proiettandoli in una dimensione dove la voce del professore diventava la grancassa dei loro sensi impazziti. Lei sapeva che quella confusione apparteneva ad entrambi, ma per tutti quegli anni nessuno dei due ne fece parola all’altro. Era un legame non legato. Era un amore non amato. Fra loro c’erano amici, fidanzati, luoghi di vita e forse loro stessi che mai permisero all’emozione della confusione di trasformarsi in altro. Riuscirono solo a sedersi sempre uno a fianco all’altra per tutti gli anni di università, sfiorandosi. Riuscirono anche a condividere un appartamento per un intero anno, ma la distanza tra loro continuò ad essere infinita ed infinitesimale allo stesso tempo. Poi un giorno ci fu un grande abbraccio, lui le sorrise con gli occhi come era solito fare, lei bevve quello sguardo come era solita fare corrispondendolo, si strinsero forte e la loro vita iniziò a correre verso destini distinti; non si videro più.

Negli anni ogni tanto Lei era tornata ad accarezzare quel volto con gli occhi rivivendo ogni singola emozione delle lezioni di Storia.

Negli anni Lui era diventato il suo sospeso.

Un sospeso non millesimato dallo scorrere del tempo perché passato e presente ancora erano parte della stessa realtà; poi, un giorno, Lei si era resa conto che il volto della memoria probabilmente non era più così nella realtà, che lo scorrere della vita lo aveva sicuramente solcato come aveva solcato il suo.

Fu allora che il sapore del suo sospeso passò da dolce ad amaro.

Lei non riusciva a corrompere quel non detto, quell’esplosione di sensi racchiusa nelle ore di lezione, con il trascorrere del tempo della vita nella realtà perché avrebbe significato doverli trasformare nel niente che erano.

Ciò significava anche dover sopprimere l’attualità della propria giovinezza ammettendo a se stessa che il presente aveva definitivamente sovrascritto il passato annientandolo e Lei questo non riusciva a pensarlo, tanto meno ad viverlo.

Fu così che tagliò il tempo e ci mise in mezzo la vita, scelse di allontanare la gioventù da sé, la spostò un po’ più indietro per mantenere intatte le lezioni di Storia.

Il volto di Lui non venne più scalfito dal passare del tempo; quello sguardo profondo ed il suo dolce sorriso rimasero sempre intatti dentro di Lei, nessuna nuova immagine di Lui li sovrascrisse, Lui rimase bellissimo non invecchiando mai.

Ogni qual volta Lei tornava con gli occhi a frequentare il corso di Storia, Lui aveva un luogo per continuare a sfiorarla, forse con intenzione o forse no, trafiggendola e lasciandola senza respiro.

Lei salvò la propria integrità rendendo Lui immortale.

 

Il vecchio che amava i libri

La vita gli era scivolata nei libri da un tempo tale che la sua mente aveva ormai dimenticato.
Ma come è possibile ricordare quando la ricerca si trasforma in risultato? Il desiderio in felicità?
Da giovane il suo spirito entusiasta gli aveva donato una doppia vita; una nel mondo della volontà e delle azioni dentro al tempo scandito ed una seconda nel mondo dei significati dentro alle parole scritte ove il tempo è solo artifizio.
Ma la sua vita scandita era precocemente sfumata sotto al peso della fatica, si era avvizzita, come una prugna secca, fino ad arrivare a dissolversi, come un corpo morto, nella vecchiaia. Non era stata una vita vuota o sfortunata; era solo stata una vita ordinaria nella quale allo sforzo non aveva quasi mai corrisposto la soddisfazione, e la delusione aveva così preso sempre più spazio allagando i desideri finché questi si erano sciolti come il sale in un mare di coscienti rinunce, necessarie, ai suoi occhi, per mantenere integra quel poco di energia rimasta. Poi era stato il turno degli acciacchi di salute che avevano ingigantito il senso di fatica mortale e schiantato la sua quotidianità contro quel grande platano che è l’inattività.
Eppure lui era un uomo felice.
Il suo fuoco, se pur affievolito, non si era spento nelle rinunce. Troppo grande era la riserva di legna ove il tempo era artifizio.
E lì, alla luce tremula di una candela, i desideri erano diventati contagiosi a tal punto da rendere l’uomo immune alle delusioni ed all’abitudine. Le parole erano diventate lo spazio ove lui sapeva la propria esistenza capace di accumulare energia come una molla compressa e di rilasciarla sotto forma di vita senza il bisogno di alcun fatto compiuto o di altro essere umano.
Si sapeva uomo vorace e saziava la sua fame con la conoscenza e, come dopo ogni pranzo che si rispetti, lui, poi, sentiva le proprie viscere appagate di senso ed il cuore sazio di amore.
Questa era diventata la sua vita e così lui ora passava le sue gornate da quando, quel giorno dimenticato, aveva trasformato la ricerca in risultato e il desiderio in felicità.

occhi

Ho visto i tuoi occhi
riflessi umidi di fatica.
Dove sei finita vita?
Poi accendi un sorriso
imbiancato di vecchiaia 
e io ti riconosco.
Tu sei me.

La terza età

Erano anni grassi quelli in cui lei era nata, tutto era abbondante; così pure la vita che si era allungata a dismisura tanto che venivano continuamente inserite nuove età. La terza, aveva lasciato il posto alla quarta, poi alla quinta ad in fine alla sesta, età nella quale, pare, fosse ora lecito morire. Lei ricordava l’ultima età dei suoi nonni che era stata la terza. In realtà quel periodo era durato circa trent’anni, durante i quali i progenitori avevano vissuto da vecchietti, idealmente malati, senza mai uscire di casa e in attesa della morte che però si era fatta aspettare fin ben oltre i loro novant’anni con grande felicità della donna, allora giovane donna, che adorava andare a mangiare risotto, frittata di pane e caffelatte da loro. I due vecchietti alla fine si erano abituati a questa terza età che non finiva mai, perché trent’anni son tanti, e alla morte avevano smesso di pensare, ma rimasero comunque sempre idealmente malati e sempre chiusi in casa, tranne che per andare a fare la spesa. Anche queste sporadiche uscite erano però sempre identiche, soprattutto per gli alimenti comprati che consistevano in: formaggio crescenza, prosciutto crudo, pane, patate, prezzemolo, uova, riso, verdure verdi da fare crude e cotte, grana, mele e tamarindo. Ogni cosa doveva essere sempre la stessa per qualità e quantità, in onore della morte in arrivo; così per colazione si mangiava caffelatte e pane secco, per pranzo, risotto o pastasciutta con verdure cotte, formaggio e purè o patate olio e prezzemolo, per cena frittata col pane, prosciutto e mele cotte. Il tamarindo serviva per la granita di metà pomeriggio.

La donna ancora conservava nell’orecchio il rumore del trita ghiaccio rosso e bianco e, ogni volta che un suono simile la colpiva, le tornava in bocca il sapor di granita; allora lei sospendeva ogni attività la stesse occupando, si sedeva e, semplicemente, sorseggiava quel liquido passato pensando ai suoi due nonnini, un tempo tanto amati.
La sua era, non era un tempo che sapeva contemplare la morte; non c’era età in cui essa fosse considerata; figuriamoci attesa. Così ora alla donna, ormai sulla soglia della propria terza età, si erano un poco confuse le idee perché, a lei, la vita era andata chiudendo molti capitoli; la maggior parte dei quali in anticipo sulle previsioni di una normale esistenza se non addirittura nel momento in cui ancora si trovavano al loro stato embrionale e perciò l’età che avrebbe dovuto chiudere e tirare le somme di un’intera vita si trovava in totale mancanza di argomenti e la lasciava spiazzata.
Terza, quarta, quinta, sesta età; ma cosa diavolo ci avrebbe fatto lei? Il matrimonio era chiuso e dimenticato; i figli ormai indipendenti e senza più richieste di accudimento; il lavoro si era esaurito di suo; anche una grave malattia era sopraggiunta ma poi passata. Cosa mai ancora mancava alla sua vita? L’unica cosa che le veniva in mente era la permanenza; tutto si era contratto e risolto in corti; anche la malattia, che era grave e che al tempo dei suoi nonni l’avrebbe lentamente e dolcemente avvicinata alla morte, per lei era stata invece un episodio, uno dei tanti, venuto e andato.
Così, ora, sulla soglia della terza età, le toccava nuovamente inventarsi qualcosa “da” vivere perché non c’era più nulla “per cui” vivere essendo i capitoli della sua vita praticamente tutti già chiusi.
Poiché non poteva concedersi la stagione del raccolto, doveva nuovamente piegarsi alla semina.
Che fatica! – pensò.
La sua terza età veniva così molto ad assomigliare a quella che chiamavano adolescenza con due uniche diversità: il fatto che avvenisse non dopo l’età dell’incoscienza, bensì dopo un’intera vita vissuta e per la spinta alla vita che era basata sull’entusiasmo delle premesse, nella prima età d’oro, mentre poggiava i suoi piedi sulla disillusione nata delle molte conclusioni occorse, nella seconda.
Quegli anni grassi avevano reso la sua vita una serie di cortometraggi non abbastanza lunghi da occupare tutta una esistenza; così ora a lei toccava, da buona regista, trovare un nuovo copione da voler mettere in scena e spendere la sua terza età e forse anche la quarta nel casting di nuovi attori, significati e scene.
L’immobile attesa chiusa sul passato e sul futuro, propria degli ultimi anni dei suoi nonnini, in lei era invece diventata dinamica aspettativa aperta su un futuro ancora pieno di promesse giovanili solo date in assaggio, ma mai compiutamente concesse.
E’ in questo modo che l’età moderna ha sconfitto la morte: negando il tempo della contemplazione contemporanea della vita vissuta assieme alla morte da vivere ed imponendo continuamente nuove adolescenze di un’esistenza resa episodi in serie.
Eterna giovinezza.

I due vecchini

Qualcosa non stava girando giusto tra quelle tre macchine. Era come se l’ultima stesse volontariamente spingendo le altre due giù dal dosso. Che strana impressione, pensò, guardando con la coda dell’occhio dentro l’ultima auto ove un vecchino e una vecchina chiacchieravano amorosamente. Passò oltre e dimenticò l’accaduto. Qualche giorno dopo rivide la stessa scena, ma questa volta le macchine erano parcheggiate ed una era la sua. I due vecchini, palesemente, stavano cercando di far scivolare le due macchine ferme avanti a loro spingendole a piccoli colpi di cofano.” E…no, questa non è un’impressione, lo stanno facendo sul serio!” Per evitare di perdere la propria auto giù per la montagna lei si fiondò sui due vecchini. Li fermò parandosi davanti a loro e, non proprio calma, chiese perché stavano cercando di distruggere quelle auto spingendole giù. Ma i vecchini, che erano veramente vecchini, le dissero che non avevano capito una sillaba del discorso perché’ erano totalmente sordi. Così lei dovette ripetere ogni singola parola urlandola come un’ossessa. Sentendo se stessa urlante e sillabante le venne da ridere tanto che quasi non riuscì più a parlare. Dopo tanto urlare sillabare e ricominciare i vecchini finalmente capirono il senso di quel ridere e sbracciare e candidi come bambini risposero: “ E’ perché siamo vecchi e invidiamo le cose giovani; non siamo delinquenti. Vieni a casa nostra e te lo dimostreremo.” Non fecero in tempo a finire la spiegazione che due energumeni si affiancarono a lei forzandola a seguirli. Andando lei pensava: “Caspita qui finisce male per me. Perché li stai assecondando?” Per la prima volta nella sua vita si trovò in una situazione ai suoi occhi senza via di uscita. Il futuro le appariva pericoloso ed obbligato. Si sentiva immobilizzata e reagire era impossibile. Arrivarono alla casa e lei fu forzata ad entrare. Solcata la porta si trovò catapultata in un grande ambiente dal gusto raffinato, solo non poco impolverato. Un locale in doppia altezza pieno di oggetti d’arte e quadri e colori e raffinatezza. I due energumeni risultarono essere i figli grandi dei due vecchini e dentro a quella casa presero un’aurea nobile e gentile come i cavalieri di antica data. La casa si animò di persone grandi e piccine. La discendenza. La casa era ricca di scale che ora i vecchini non erano più in grado di fare; quattro gradini, un corridoio, altre scale e poi un muro, là la loro stanza. Un piccolo letto matrimoniale, di quelli per veri amanti, dove non c’è spazio per sonni indipendenti, pareva schiacciato sulla parete, quella lunga a chiusura del luogo notturno di quelle nozze. Una casa dentro alla casa, ove la progenie era riluttante ad entrare per non disturbare la purezza di quel sentimento antico. Ma i vecchini erano veramente vecchini, e non riuscivano più ad entrare nel loro nido d’intimità, troppe le scale. Così nessuno abitava più quel luogo d’amore. Tutta la casa mostrava, in realtà, i segni del tempo vecchio, quando le forze si contraggono dentro alla propria sopravvivenza e non c’è più spazio per nulla oltre. I vecchini parevano infastiditi anche dalla larga progenie che si era piazzata in casa un poco per dovere d’affetto, un poco per profumo di futuro possesso. Per questo i due vecchini ogni tanto scappavano e lasciavano che il loro fastidio per la vecchiaia diventasse rabbia per il mondo giovane trovando sfogo nella spinta innocente del cofano in fronte fin giù dal dirupo. Per loro era un poco come un sacrificio all’abisso per saziarlo prima dell’estrema richiesta.

La ruspa

C’e’ atmosfera strana agli incroci di Milano, sarà forse il caldo. Ricordate l’uomo inchinato al sorriso di lei? Bene, oggi nuovo incrocio, stesso sorriso, nuovo inchino. Questa volta, però, non umano, ma di macchina. Ad inchinarsi e’ stata infatti una ruspa gigante che chissà cosa ci faceva in quel posto. La donna stava semplicemente aspettando il suo turno ad attraversare quando, per caso, guardò il grosso mezzo di cantiere arrivare e contemporaneamente pensò che era alquanto bello. Quella macchina infernale si portava addosso il lavoro degli esseri umani reso palese dai quintali di polvere appiccicata. Lei la conosceva bene quella polvere ed aveva imparato a rispettarla. Credo che il pensiero di lei in qualche modo si rese palese all’uomo che, in canottiera bianca, guidava il mostro fuori luogo. Più lei pensava, più lui rallentava fintanto che non si parò completamente fermo davanti a lei e la pala scese. L’aggeggio infernale si appropriò dell’incrocio con la sua massa immane scatenando l’invidia di ogni altro mezzo per l’audacia mostrata, infatti a quel punto, l’incrocio suonò sulle note dei claxon impazziti e fu il disastro. Il bolide polveroso, completato il suo inchino, ripartì liberando il verde al passaggio degli altri mezzi montati a furia come la panna si monta a neve. Al suo turno lei attraversò ridendo a gran voce. Era la prima volta che la forza del suo pensiero riusciva a fermare ed inchinare una ruspa facendo impazzire un incrocio. Potrebbe essere finita qui, ma poiché gli attraversamenti ancora non erano completati, mancava infatti l’altro lato, come potrebbe finire ora la storia? La donna aspettando di nuovo il suo turno ad attraversare notò sull’altra sponda un piccolo essere umano, era tanto grande quanto piccolo. Una vecchina incurvata e rugosa stava a sua volta avvicinandosi all’incrocio. Era così vecchia, così incurvata, così delicata che uno zuffolo se la sarebbe potuta portare via. Il suo passo era lento, che più lento non si può; faceva venire voglia di camminare al suo posto. Faceva anche venire voglia di correre a ben pensare. La sua, però, non era una lentezza di malattia; era una lentezza di storia. Quella donna si portava addosso tutta la sua vita incastrata tra le rughe e piegata dalla gobba. Era bellissima e nobile. Al verde le due donne si misero a camminare, ma alla vecchina ci volle un tempo infinito per attraversare e un passaggio di verde non fu sufficiente. La donna giovane, creatrice di inchini, capì e si fermò a metà incrocio solo per guardare la vecchina andare. Penso pensasse a che vita piena doveva aver avuto per camminare così lentamente, penso pensasse che solo chi sa appagare se stesso dei frutti del mondo avrebbe, in vecchiaia, camminato in tal modo. Intanto la vecchina avanzava con quel passo corto, lieve ed incurvato che a tratti sembrava un trotto fermo e la giovane, produci inchini, sempre ferma a metà sulle strisce … Verde, poi rosso! Ed accadde di nuovo! Il traffico si ingelosì di quelle due donne beate ed impazzì. Credo non riuscisse a reggere l’idea della lentezza che esprime pienezza di vita. In strada questa mattina probabilmente c’era un traffico scarno e rinsecchito. Ancora l’incrocio risuonò del concerto di claxon. Ma sapete il bello? La vecchina non li sentì perché era anche un poco sorda e nemmeno la giovane donna ci fece caso così intenta a rimirare l’età di vecchiaia. La vecchina arrivò di la e la giovane di qua e l’incrocio tornò al suo ritmo normale contando due concerti in più di claxon. Ho scoperto che è un incrocio Allegro vivace.